Venezia 61 - 2004
L'ibrido sensato
a cura della Redazione

"Izo" di Miike Takashi

 
  ^ Izo di Miike Takashi

La gestione di Marco Müller della 61° Mostra del Cinema di Venezia risulta vincente e originale in almeno un elemento chiave: la selezione dei film. Molti autori internazionali riconosciuti, una buona quantità di cinema minore più o meno interessante, il solito gruppo nutrito di film americani e una retrospettiva sul cinema di serie B italiano che, dopo il gotico-thriller dell'anno passato, getta la luce lagunare su molti altri generi protagonisti fino a trent'anni fa della cinematografia nostrana (poliziottesco, guerra, peplum, etc.). Per non parlare dell'incursione finalmente più pesante del cinema d'animazione, la cui assenza quasi completa ha sempre brillato come una particolare tara nel curriculum di - almeno - dieci anni passati di festival. In sintesi, una mostra che si bilancia con leggerezza e sensatezza fra il cinema d'autore e il cinema commerciale, con l'occhio sempre attento a selezionare film anche particolari o estremi, ma comunque praticamente privi del pregiudizio di fruibilità (leggi: noia, incomprensibilità) che da sempre sembra essere il marchio del selezionatore da festival intellettuale cinefilo.
Izo del giapponese Miike Takashi (Ichi the killer, Audition) è il film di un regista commerciale (che realizza in media tre-quattro film l'anno), il quale tenta di integrare tutta la carica popolare ed eversiva del suo cinema in un esperimento particolare, d'autore. E realizza un vendetta-movie anarrativo, povero, lungo, sanguinoso, delirante e inspiegabilmente affascinante. Insomma un ibrido sensato sia come esperimento d'autore, sia come esempio di cinema popolare. Anche se riuscito solo in parte. Lo stesso sentimento lo si prova nei confronti la selezione della 61° Mostra del Cinema di Venezia. Non è certo una formula originalissima quella di Müller appena descritta, ma in questo caso è certo miracolosamente equilibrata, piacevole, condivisibile, comprensibile e perfettamente dentro il suo tempo senza doversi concedere completamente al mercato o alla purezza intellettuale. Quanto basta ai frequentatori della Mostra per potersi permettere di fruire semplicemente del contenuto filmico, spettacolare, di idee, e persino di glamour, del festival veneziano, senza bisogno di soffermarsi gravosamente sui (pur notevoli) problemi organizzativi, sui cascami politico-mondani o sulla quasi totale inutilità delle opere italiane presentate.
Un'esperienza divertente e densa: ciò che dovrebbe essere un festival cinematografico.


Venezia 60 in pillole
di Adriano Ercolani

Promossi


Collateral

di Michael Mann

Era inevitabile che il cinema di Michael Mann approdasse al digitale: sintesi estrema di rarefazione visiva e concentrazione di significati insiti all’interno dell’immagine/contenitore di storie, il digitale del film consente quello che l’autore aveva sempre aspettato, e cioè la fusione tra personaggio ed ambiente circostante, in una sporcatura che è aderenza piena alla realtà dell’accadimento ed insieme elegante scommessa estetica. A fare il resto, la storia, la regia, la fotografia, ed il Vincet/Cruise dolente e rabbioso come il Neil/De Niro di Heat. Il capolavoro del festival.

il Segreto di Vera Drake
di Mike Leigh

Se nel suo primo film in costume Topsy Turvy Leigh aveva gioiosamente ostentato, al limite del gigione, stavolta il rigore assoluto (ed inusitato) della messa in scena e la solidità dello script compiono un piccolo miracolo. Leigh non concede nulla all’effetto e tutto al realismo della vicenda, riuscendo nel difficile tentativo di raccontare senza giudicare. E, ancor più per questo, risulta schierato come non mai. Regia di stordente bellezza, ed una Imelda Staunton che va dritta al cuore. Il miglior film in concorso.

le Chiavi di casa
di Gianni Amelio

Per una volta che un nostro film si meriterebbe un premio, ecco che subito lo stanghiamo. Certo, la storia è di quelle “facili”, ma proprio per questo bisogna ammirare come Amelio sia riuscito a non cadere nel pietismo, ed a tirarne invece fuori un film silenzioso, coerente, pudico e soprattutto sincero. Un paio di scene sono davvero da groppo in gola, come quando Andrea mangia il gelato con una foga che sa di voglia di vivere. Non al livello de Il ladro di bambini, ma molto vicino…

il Castello errante di Howl
di Hayao Miyazaki

Ancora un grande affresco visivo dall’autore de la Principessa Mononoke e La città incantata. A parte l’eleganza di un tratto capace di sollevare da solo lo spirito, Miyazaki costruisce dei personaggi a cui è impossibile non affezionarsi. Quello che viene perso in potenza simbolica e metaforica viene riacquistato grazie ad una maggiore linearità di racconto. A suo modo, forse, un tentativo di aprire all’Occidente. Pienamente riuscito.

Tell them who you are
di Mark S.Wexler

Documentario appassionato, forse un po’ agiografico, su uno dei più grandi direttori della fotografia che Hollywood abbia mai visto, Haskell Wexler. Rissoso, anarchico, sempre schierato; marito incostante, padre non conciliato (né conciliabile), soprattutto genio dell’immagine, scomodo perché prevaricatore, testardo, dittatoriale. Insomma, oltre allo spasso cinefilo di vedere all’opera il grande Wexler, anche la lieta scoperta di conoscere un essere umano dietro il professionista.

Ferro 3
di Kim Ki-Duk

L’autore da festival per eccellenza, dopo il capolavoro di Primavera, estate, autunno…, conferma di aver cambiato registro narrativo, e stavolta gira una commedia surreale, gentile e delicata come non mai, in cui l’assenza di linguaggio viene compensata da trovate di humour sopraffino e di vera poesia cinematografica. Nel finale il film si perde un po’. Forse troppo deciso a diventare metafora di qualcos’altro. Rimane però la bella conferma del regista, capace di toccare le corde del pubblico anche attraverso temi più gentili.

la Terra dell'abbondanza
di Wim Wenders

Il più “rischioso” ed arrabattato dei film dell’ultimo Wenders; questa nuova riflessione sull’America, le sue paure ed il suo desiderio di redenzione (da se stessa, sembra voler dire il regista) ha dalla sua la sincerità ingenua di chi crede ciecamente di aver un messaggio da dare. Certo, i personaggi sono stereotipati fino all’eccesso, e la storia non è delle più originali; il digitale però conferisce all’estetica una patina che sa di vero, e la solita bravura del grande Wim nello scegliere luoghi, colori e musiche è ancora una volta da contemplare con ammirazione. Promozione forse dovuta all’amore per un ex-maestro di cinema? Può darsi, ma a noi ancora il suo cinema colpisce.

Piccoli ladri
di Marziyeh Mekshini

E’ vero che quando vedi un film iraniano sai esattamente cosa aspettarti in quanto ad estetica della messa in scena, ritmo, ecc. ecc. E’ anche vero d’altronde che il realismo ed il senso di verità che questo cinema contiene riesce (quasi) sempre a catturare lo spettatore ed a portarlo oltre le oggettive difficoltà che il film stesso pone. Piccoli ladri sbanda infatti proprio quando volta troppo alto, citando senza troppa necessità il Neorealismo italiano con un senso cinefilo eterogeneo rispetto a quanto raccontato prima. Per il resto, la sincerità e la pregnanza della pellicola sono ancora una volta ammirevoli, così come i due piccoli protagonisti.

Lei mi odia
di Spike Lee

Dopo i titoli di testa, che varrebbero da soli il massimo dei voti, Spike Lee confeziona con la solita cura visiva un film troppo lungo ed a tratti macchinoso nel voler legare due storie parallele che non sempre hanno motivo di incontrarsi. Vi sono però presenti in She hate me una tale quantità di spunti di riflessione, di trovate comiche, di attori che riescono a dare assolutamente il meglio di sé (Si, parliamo anche della Bellucci!) che è impossibile non promuoverlo, aspettando che il grande autore newyorkese ritrovi il senso della storia e della misura.

Neverland
di Marc Forster

Per la prima ora e passa non capisci bene dove il film voglia andare a parare, ma l’attenzione non viene distolta grazie alla correttezza della regia di Foster, alla fattura della messa in scena, e soprattutto alla bravura del trio Depp-Winslet-Hoffman. Nell’ultima mezz’ora invece Finding Neverland ti prende alla gola e non ti molla più: impossibile non commuoversi.

the Manchurian candidate
di Jonathan Demme

Dopo la sciagurata parentesi giallo-rosa di The truth about Charlie Demme torna al thriller fanta-politico con il remake di Va e uccidi, cult anni ’60 di John Frankhenheimer. Il risultato è un film dalla sceneggiatura solida e ben congeniata, che riesce a rendere abbastanza credibile una storia che altrimenti avrebbe rischiato la “pochade” involontaria. Il resto lo fanno Denzel Washington, la grande Meryl Streep e la sorpresa Liev Schrieber. Buon intrattenimento, che propone allo spettatore qualche spunto davvero inquietante…


Rimandati



Mare dentro
di Alejandro Amenabar

Javier Bardem troneggia da attore di razza su un film elegante ed arioso, che conferma le doti di ottimo narratore per immagini di Amenabar. Ed allora perché non è stato promosso ed è il primo tra i rimandati? Perché Mare dentro è un film freddo, che non commuove. E con quella storia, vera, un mare di lacrime sarebbe stato il minimo…

P.S.
di Dylan Kidd

Opera seconda dell’autore di Roger Dodger, questa seconda fatica conferma l’abilità di Kidd nel saper comporre atmosfere altamente significative, in cui personaggi a tutto tondo si muovono ed interagiscono grazie soprattutto a dialoghi al fulmicotone. Peccato però che la sceneggiatura del film proceda senza una vera e propria continuità logica, minando irreparabilmente una storia che cambia ogni venti minuti senza senso. Rimangono però almeno tre o quattro scene dense di sensazioni, e la Linney si conferma attrice di razza.

Mysterious skin
di Gregg Araki

Due adolescenti coetanei che crescono oppressi da un evento traumatico che hanno subito da piccoli: uno se ne carica sulle spalle il peso, l’altro sublima e rimuove nell’illusione di essere stato rapito dagli alieni. Da una storia molto coinvolgente e piena di spunti da sviluppare Araki riesce solo in parte a trarre un film interessante, ma spreca troppo con una regia sciatta, confusa, quasi spaventata dal tema trattato. Peccato, perché pensando all’audacia visiva dei suoi primi film, ci sembra che questa sia ancor di più un’occasione persa.

Volevo solo dormirle addosso
di Eugenio Cappuccio

Un film italiano dall’ambientazione originale (praticamente una sola location, l’azienda) e che tratta un tema come quello della precarietà del lavoro nell’Italia odierna. Già ci sarebbe da gridare al miracolo. Cappuccio ne ricava un’operina come sempre troppo “piccola”, ma almeno densa di un’atmosfera cupa, straniante, quasi brechtiana. Si ridacchia ma non ci si commuove. Almeno si ha la lieta sensazione che alcuni giovani attori (Pasotti e la Capotondi) stanno crescendo.

l'Amore ritrovato
di Carlo Mazzacurati

Ancora una volta, ahinoi, il perfetto esempio di quello che è il cinema italiano odierno: messa in scena corretta, ricostruzione abbastanza accurata (e bella da vedere, una volta tanto…), attori in parte; il tutto sprecato da una storia che non è né carne né pesce, e che va avanti per un’ora e quaranta sempre con lo stesso leit-motiv. Perché allora investire tanto denaro se poi non si riesce a coinvolgere lo spettatore con una sceneggiatura capace di raccontare una vicenda, oltre che soltanto atmosfere o emozioni? Non brutto, ma forse inutile, che è peggio…

Vento di terra
di Vincenzo Marra

L’idea di cinema “povero” che Marra aveva proposto con Tornando a casa ci era piaciuta, ed era coerente con la linea estetica da lui scelta. Qui il regista fa la stessa cosa, e per almeno un’ora centra nuovamente il bersaglio. Ma cinema povero è una cosa, cinema sciatto un’altra. La messa in scena del Kosovo assume la tristezza del ridicolo, e da quel momento in poi anche la storia frana, appiccicata al resto del film senza alcun senso. Peccato.

una Canzone per Bobby Long
di Shawnee Gabel

La regista mostra fin dalle prime scene di aver studiato alcuni “grandi” della letteratura americana, come William Faulkner, John Steinbeck, soprattutto Tennessee Williams: New Orleans, simbolo per eccellenza dell’ambientazione rurale e culla grassa di storie a tinte forti, ospita questo gruppo di sbandati, ognuno con un passato pesante come un macigno ed un futuro incerto come uno stelo d’erba. La messa in scena è corretta ma nulla più, e se la bella Johansson conferma attrice di talento, completamente fuori parte ci è sembrato invece John Travolta: per il suo professor Long ci sarebbe voluta ben altra capacità attoriale dietro l’ovvia e teatrale gigioneria.

il Mercante di Venezia
di Michael Radford
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Belle immagini, certo. Costumi e scenografie azzeccate, non c’è dubbio. Ma il resto è una palla assurda, con attori imbambolati come Joseph Fiennes e l’ormai ex-mito Jeremy Irons a tenere su le braghe e null’altro. Radford dirige l’ennesimo Shakespeare come se non capisse cosa sta facendo, e ci fa rimpiangere di gran lunga la baldanzosa presuntuosità di Branagh. Unico, grande pregio del film è un Al Pacino di intensità e bravura assolute. Inchino a lui.


Bocciati



Te lo leggo negli occhi
di Valia Santella

Più che l’incomprensibile film della Santella, a crollare è Nanni Moretti, il mio regista italiano preferito. Va bene voler produrre e lanciare opere di giovani, ma perché non leggere almeno i copioni, invece di accordare fiducia ad amici ed affiliati? Buttate al vento le capacità di Stefania Sandrelli, del sempre capace Burruano e soprattutto di Teresa Saponangelo, attrice di talento che non riesce mai a trovare il film giusto per essere lanciata. Peccato. Te lo leggo negli occhi è approssimativo, noioso, e diventa irritante quando nella boutique compare il Nanni nazionale a rompere i coglioni alla povera, sfortunata commessa. Il peggior cameo degli ultimi anni.

Ovunque sei
di Michele Placido

Per il primo quarto d’ora stai concentrato, alla ricerca di un senso che non arriva. Dopo venti minuti arrrivano i primi sorrisi a denti stretti, seguiti subito da brevi risolini. Dopo mezz’ora inizi a non tenere più il riso (iserico?). Insomma, fino alla fine Ovunque sei diventa già il miglior film comico dell’anno. Placido impegnato è un buon regista, Placido pirandelliano è un uomo confuso, prima di tutto su sé stesso. La coppia Bobulova/Dionisi è davvero triste, quella Accorsi/ Violante Placido da pochade. Una curiosità: il film ha probabilmente il maggior numero di inquadrature sottoilluminate della storia del cinema italiano...

Birth
di Jonathan Glazer

I primi due minuti di film sono stupendi, idea strepitosa per una grande commedia nera. Però purtroppo di commedia non si tratta, e così si passa tutto il film a cercare di capire cosa stiamo vedendo, senza riuscirci. La confezione è inutilmente lussuosa, ma serve soprattutto per tentare di coprire la mancanza assoluta di idee nel portare avanti la storia. Alla fine non ci interessa nessun personaggio, tanto meno quello di una Kidman che a forza di voler trovare ruoli originali rischia di naufragare nell’assurdo.


Birth
CinquePerDue
Collateral
Donnie Darko
Ferro 3
la Fiera della vanità
Lei mi odia
Man on fire
the Manchurian candidate
Mare dentro
il Mercante di Venezia
Mysterious skin
Neverland
Occhi di cristallo
Ovunque sei
il Segreto di Vera Drake
Shark tale
the Terminal