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USA, 2004 di Jonathan Demme, con Denzel Washington, Meryl Streep, Lew Schreiber, Jon Voight, Bruno Ganz, Vera Farmiga, Robyn Hitchcock Alcuni cineasti cresciuti tra le fila della New Hollywood (Coppola, Stone), hanno dimostrato negli anni il bisogno di una valvola di sfogo artistica in grado di riattivare la loro componente selvaggia, spesso pesantemente addomesticata nelle operazioni di grande respiro e alto budget. La filmografia di Jonathan Demme evidenziava questa urgenza nella seconda stagione della sua carriera, quando il regista si lasciava sopraffare da qualcosa di travolgente poi sempre sotteso alla sua scrittura - per lanciarsi allinseguimento di vedove allegre ma non troppo, dove lancora incombente retaggio cormaniano determinava quellapproccio registico sciolto ed irriverente, alle volte volutamente zoppicante, che sarebbe poi tornato ad animare The Truth About Charlie, resettando quasi inspiegabilmente il poderoso incedere drammaturgico dei capolavori introspettivi Il Silenzio degli Innocenti e Philadelphia (e del poco visto Beloved). Cè da chiedersi allora come si possa introdurre The Manchurian Candidate allinterno della schizofrenica opera del cineasta newyorkese. Senza dubbio questa ennesima sciarada demmiana (in luogo della schiettezza ludica del remake del film di Donen, del gioco psicologico lecteriano e delle premonizioni fatalistiche del Segno degli Hannan, qui vigono le meschine strategie dellambiente politico) si presenta come il più nitido punto di convergenza dei citati impulsi narrativi del regista. La libertà delle prime, dinoccolate commedie trasuda nella ritmica espositiva, di cui Demme fa buon uso nel concretizzare visivamente il cortocircuito mentale affliggente il capitano Bennett Marco (un convincente Denzel Washington). Frequenti dissolvenze in nero (Demme sembra celebrare un manifesto dellellissi breve nei titoli di coda) e una cadenza di montaggio non regolare sono le intermittenze neurali di una memoria mistificata da una democrazia corrotta, che vuole imporre il suo candidato Raymond Shaw (Liev Schreiber) ad un popolo votante fin troppo impressionabile. Ma la pellicola di Demme è soprattutto accomunabile ai suoi character-study di inizio anni 90, e infatti la disinvoltura narrativa rivela subito una certa inconsistenza quando la sceneggiatura di Daniel Payne e Dean Georgaris (che rielaborano lo script di Va e uccidi di Frankenheimer) si assottiglia al dramma di Marco. La ricerca per la verità perseguita dal soldato richiama il regista al suo esclusivo trattamento delle dinamiche interpersonali, con il noto approccio al controcampo puro nei dialoghi, che disarma i personaggi, rendendoli nel loro dialogare sguardo in macchina direttamente soggetti al filtro selettivo del fruitore. è proprio questa, in fondo e da sempre, la virtù del cinema demmiano, la sua profonda capacità di restituire quasi fisicamente il resoconto filmico delle tensioni intime più insondabili attraverso la semplicità estetica. Certo qualcosa nella sceneggiatura stavolta viene a mancare e infatti il regista è costretto a calcare la mano, a farsi visivamente prolisso: dove in passato per aprire uno squarcio sul baratro mentale del genere umano bastava un primo piano con carrello avanti sullesporsi verbale di Lecter a Clarice, qui le limitazioni di copione costringono ad investigare il subconscio rimosso del protagonista attraverso deformazioni grandangolari e caricaturali che ricordano piuttosto il Frankenheimer di Operazione Diabolica - anche a causa della sottile e inquietante partitura di Rachel Portman. Questo turbamento psichico trova naturalmente la sua strada verso la fisicità sociale, e Demme si riconferma interessato alla carnalità del materiale umano sempre in stretta sintonia con levolversi psicologico dei protagonisti che affiora stavolta in modalità quasi cronenberghiane. Marco scopre infatti di essere stato impiantato con tecnologie allavanguardia nel controllo del carattere, così come il suo ex-maggiore Shaw è ora il predestinato ad una "presidenza perfetta, obliterato nella mente e comandato nelle azioni da chi già in guerra si era impadronito della sua individualità. Particolarmente in sintonia con la metafora della pelle esternata nella riduzione del libro di Harris è una raggelante sequenza poco prima dellultimo atto, dove la madre del giovane candidato (Meryl Streep, sempre in gran forma) vera costruttrice del suo avvenire scoglie i nodi dellintreccio e delle macchinazioni escogitate affinché la Casa Bianca possa essere assicurata al figlio. Questo le siede davanti, nudo, e sorride, ormai spersonalizzato, alle ambigue carezze di una madre-serial killer sociale; robot di carne pronto a vestire con i suoi successi politici le aspirazioni di un genitore che suggella la sua affinità con il Buffalo Bill del film del 90. Lilluminazione neutra e altissima conferisce inoltre al volto del bravo Schreiber, così come a tutto il segmento, una levigatezza del tutto innaturale, opposta ai forti incarnati escogitati sempre dal fedele direttore della fotografia Tak Fujimoto nel film con la Foster, ma ugualmente efficace nel suggerire una sensazione di malessere epidermico. Si vive così un atmosfera ibrida, anche se sarebbe ingiusto estendere laggettivo ad un giudizio definitivo della pellicola, che, tra laltro, perde il suo valore di denuncia politica (nonostante luscita americana a cavallo della campagna elettorale) in personaggi come Thomas Jordan (Jon Voight), assolutamente impensabile nella sua onesta ingenuità allinterno di scenari governativi reali. Lultimo film di Demme rimane insomma uneccellente, godibilissima escursione nella fanta-politica di genere. Vista la convivenza di alcune tra le cifre più caratteristiche del doppio percorso artistico di Demme, il lungometraggio non manca poi di evidenziare in alcuni passaggi alcune delle prestazioni più singolari del regista. Ma si auspica una commistione di maggior compiutezza, o, semplicemente, un proseguimento su due binari separati ma autonomamente convincenti. Intanto The Agronomist, nuovo documentario del cineasta, è già imminente. |