Lei mi odia
He love them
di Piero D’Ascanio


Venezia 61 - 2004

Frame-stop: Spike Lee
  She hate me, Usa, 2004
di Spike Lee, con Anthony Mackie, Woody Harrelson, Ellen Barkin, John Turturro, Monica Bellucci.


Arrabbiato, divertente, violento, iperrealista, sperimentale, antinaturalista, tragico: ognuno di questi aggettivi è stato, di volta in volta, calzante per un’opera di Spike Lee. Fino alla 25ma ora, ed in quel caso, tout court, era un capolavoro.
She hate me è un film strano. Strano per quel che dice – o vorrebbe dire, almeno crediamo – strano, ovviamente , per il modo in cui lo dice. E’ una commedia, almeno per quanto riguarda la parte principale del plot; ma appunto a causa di questa specificazione, non lo è in senso stretto. Anzi. Accanto – intorno, in realtà- alla vicenda privata di Jack (il bravo Anthony Mackie), infaticabile “fecondatore” di donne omosessuali in cerca di maternità, si sviluppa un altro intreccio e, tanto per essere subito chiari, uno dei principali difetti del film è proprio il non riuscito amalgama tra le due storie. La vicenda che fa da sfondo a quella principale rappresenta la parte più drammatica del racconto, quella ruotante intorno ad un caso di frode industriale denunciata dallo stesso Jack, vicepresidente dell’azienda farmaceutica in questione; è appunto in seguito alla rappresaglia dell’azienda – Jack viene cacciato e i suoi beni congelati – che il neo-povero protagonista abbraccia la citata seconda “occupazione”, iniziando proprio dalla sua ex fidanzata e dalla di lei compagna attuale.
Se si va ad analizzare il film dall’inizio, si capisce subito che il grande autore afroamericano ha intenzione di spiazzare il pubblico: una volta introdotti in un contesto affatto drammatico (il suicidio di un medico dell’azienda che aveva scoperto gli illeciti in atto), non passano neanche venti minuti che il film cambia totalmente registro entrando in un territorio più leggero, apparentemente abbandonando gli aspetti di acre pamphlet sociale dai quali era partito. È su questo secondo terreno che il film si gioca i suoi momenti migliori: Lee dà sfogo al suo virtuosismo stilistico, si ride di gusto più di una volta, le attrici ben dirette danno vita ad una ricca galleria di tipi. C’è anche spazio per un bel sussulto intimista, in occasione di un momento particolarmente significativo; allora, l’elegante mdp di Matthew Libatique si ritrae dalla scena, discretamente. Tuttavia, anche qui non c’è molto altro; al di là dell’indiscutibile sensibilità registica e di qualche “zampata” azzeccata (la scena dello “strip” di Jack) rimane solo un superficiale divertimento, in luogo di quella che crediamo avrebbe voluto -e soprattutto dovuto- essere una graffiante satiretta di costume.
Ma si può stare anche al gioco, da principio: d’altronde si attende l’incontro e l’amalgama tra le due vicende, quella sociale e quella –in un primo tempo- privata; ma il legame narrativo rimane davvero labile, e quello intertestuale (in un contesto si parla di un farmaco contro l’AIDS, nell’altro si nega una sessualità “tradizionale” e correct) non viene mai sviluppato. Ogni volta che sembra essersene dimenticato, il regista riprende le fila della vicenda con la quale era iniziato il film, e la stiracchia in avanti quel tanto che basta a tenerla al passo dell’altra (tra l’altro, così facendo centra anche qualche bel momento di noia). Purtroppo, la fusione delle due storie in occasione del processo contro Jack non funziona affatto, e l’ennesima virata di tono del film, stavolta sulla retorica del cinema civile, appare francamente un po’ posticcia; né va meglio col finale vero e proprio, deriva dell’ultima sterzata di registro.
Peccato, perché non dispiaceva il parallelismo creato da Lee tra la situazione sociale di Jack e quella, tristemente analoga, in cui si trovò la guardia che nel 1972 scoprì l’effrazione al Watergate, fatto storico di grande pregnanza drammatica e molto nelle corde dell’autore; ci è sembrato molto più opportuno e soprattutto più sincero delle frecciatine furbette -e un po’ “facili” ,ora come ora- all’attuale governo americano.
In un cast ben assortito, davvero brava la Washington, ex grande amore di Jack che diventa imprenditrice per future madri omosessuali; gustosi i tipi della ritrovata Barkin e di Harrelson, mentre un po’ facilotta la cinefilia che anima il personaggio di John Turturro, mafioso col mito del Padrino (e tanto di manifesto in bella mostra). La Bellucci invece ci offre il destro per scagliarci una volta di più contro il doppiaggio: su di lei ha sempre un effetto devastante, ed è una pratica che rende il peggior servizio possibile ad uno Spike Lee Joint, anche ad uno oggettivamente non riuscito. Ma che rimane comunque uno Spike Lee Joint, e noi siamo tutti baziniani.