il Segreto di Vera Drake
Per un cinema sintetico
di Adriano Ercolani


Venezia 61 - 2004
  Vera Drake, GB, 2004
di Mike Leigh, con Imelda Staunton, Richard Graham, Eddie Marsan, Jim Broadbent.


Ogni dialogo viene imparato durante le prove, ma i miei attori sanno ciò che devono dire solo quando sono di fronte alla macchina da presa. è mio preciso compito costruire le interrelazioni tra loro e spingerli verso un conflitto drammatico fino a ottenere, attraverso l’improvvisazione, un microcosmo di società.
Mike Leigh

Nel corso di una serie di film difficilmente dimenticabili e di una carriera all’insegna dell’impegno sociale e civile, Mike Leigh si è affermato come straordinario creatore di personaggi dall’intensità emotiva e simbolica mai banale. Cantore cinico e disilluso dei “dimenticati” dell’era Thatcher, e più in generale di un’odierna Inghilterra proletaria e confusa, il cineasta ha fin dai primi lungometraggi adottato uno stile di regia “invisibile”, sempre teso a seguire situazioni e personaggi piuttosto che anticiparli o sottolinearne l’importanza con l’intervento invasivo del “mezzo cinema”. Vedere un film di Mike Leigh ha significato per molto tempo seguire le vicende di una serie di persone in maniera partecipe, densa, oseremmo dire arrabbiata. L’intento del metteur en scène era quello di far partecipare lo spettatore al clima surriscaldato, intenso, vibrante in cui si consumavano le storie dei suoi protagonisti. Sceneggiatore capace di fondere con incredibile veridicità dialoghi estenuanti e scene di ottima fattura teatrale, Leigh ha subito capito che l’importanza del suo cinema risiedeva in quanto detto, urlato, oppure semplicemente comunicato dal testo e dall’interpretazione degli attori. In questo senso la rigorosa particolarità estetica del suo fare cinema è stata quella di una macchina da presa “assente” nel suo mostrarsi ma assolutamente presente nel suo mostrare, nel partecipare da vicino all’enorme quantità di energia emotiva e psicologica sprigionata dalla messa in scena. Opere come Belle speranze, Dolce è la vita, Segreti e bugie o Naked (secondo il mio parere ancora oggi il suo film più bello) ci hanno insegnato ad amare un Leigh grandioso regista e direttore d’attori, cineasta rigoroso nella sua idea di cinema militante anche e soprattutto in quanto non presente.
Con il primo film in costume di Leigh, Topsy Turvy, le cose sono cambiate. Oltre che solito, grande scrittore di personaggi e dialoghi, il regista ha dovuto per forza di cose modificare anche l’atteggiamento dietro la macchina da presa, consentendo stavolta alla stessa ed alle proprie capacità registiche di invadere la messa in scena, e rivelarsi in quanto tali. Il successivo, struggente Tutto o niente ha confermato questa nuova concezione registica dell’autore, tornato a raccontare sferzante i problemi e le vicissitudini della classe britannica meno agiata: soltanto con un semplicissimo carrello in avanti, nel doloroso piano-sequenza che chiude il film, Leigh ha definitivamente mostrato di aver assunto una nuova dimensione registica, più elegante e presente, senza però aver minimamente rinunciato al rigore ed alla spinta ideologica e politica che ha contraddistinto le sue opere più significative. Se però in un certo qual modo Topsy Turvy e Tutto o niente, pur ottimi film, hanno evidenziato un certo squilibrio nella nuova ricerca di miscela tra la composizione di storia/personaggi e regia, con Il segreto di Vera Drake ci troviamo di fronte ad un lungometraggio di rara compenetrazione tra testo e messa in scena: la splendida (nella sua sobrietà) ricostruzione della Londra primi anni ’50 si sottomette alla perfezione ad un quadro familiare in cui tutti i personaggi, soprattutto la dimessa e gentile protagonista, sono tratteggiati con una finezza psicologica impressionante; la bellezza pacata di dialoghi, ambienti, situazioni, servono ancor di più a scatenare il dramma della seconda metà del film, in cui si parteggia per Vera grazie a quanto la storia lascia intuire più che svelare. Melodramma di rara intensità, il film ha il sapore dell’autenticità più squisita, pur accettando pienamente di essere una ricostruzione ed ancor di più una messa in scena nel senso più profondo del termine. Qui infatti interviene un nuovo Mike Leigh/regista, capace di sprigionare attraverso il rigore estetico più assoluto una forza emotiva inaudita: le numerose scene di interrogatorio, così trattenute eppure vibranti, basterebbero a testimoniare da sole la qualità della pellicola. Leigh così acquista una nuova arma di indagine, di vivisezione, di contestazione: il cinema in tutta la sua estensione. La spinta alla riflessione offerta da Il segreto di Vera Drake proviene prima di tutto dal suo essere grande cinema non conciliatorio, mezzo attraverso cui un cineasta da sempre schierato può portare al confronto, all’analisi, alla denuncia di un sistema politico/sociale che egli vede non funzionare. Il fatto che il film sia ambientato nel passato rende l’importanza della sua riuscita ancor più fondamentale: è con un grande film che Leigh scuote le coscienze degli spettatori, non soltanto con un messaggio. Una così precisa e sottile costruzione drammatica non poteva poi non consentire agli attori di dare il meglio di sé, come d’altronde sempre accade nei film di Leigh: ed ecco che Imelda Staunton ci regala una Vera Drake prima fragile quanto soave nella sua ingenua purezza, poi splendida e dolorosa cosciente del proprio reato. La sua interpretazione incanta all’inizio per leggerezza, per colpire dritta al cuore nella seconda parte del film. Altro grande cameo quello di Jim Broadbent, che dimostra ancora una volta come ad un attore di razza possono bastare anche due minuti per farsi ricordare.