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Bom, Yeo-reum,
Ga-eul, Gyeo-ul, geu-ri-go Bom, Corea del Sud, 2003
di Kim Ki-duk, con Oh Young-soo, Kim Young-min, Seo
Jae-kyung, Ha Yeo-jin
Il fatto che Primavera, estate, autunno, inverno
e ancora
primavera sia il primo film del regista coreano a essere distribuito
in Italia, già potrebbe leggersi come piccolo indizio di unavvenuta
svolta allinterno di un cinema personalissimo e dal curriculum
festivaliero di tutto rispetto. Vero è pure che, sbollita la
febbre hongkonghese, la Corea del Sud da diversi anni si è trasformata
in un punto di riferimento delle attenzioni occidentali verso lestremo
oriente, come confermerebbe appieno il premio a Cannes per Old
Boy e la sua chiacchierata compatibilità pulp-adolescenziale
con il presidente della giuria: da qui, però, a fare breccia
nella sonnacchiosa distribuzione italiana ce ne passa e la sensazione
che Kim Ki-duk abbia nel frattempo perso/guadagnato qualcosa (a seconda
dei punti di vista) rispetto allopera precedente è palpabilissima.
La storia di un monaco e delle tappe della sua vita, raccontate in limpido
parallelo con lalternarsi delle stagioni ha già di per
sé lappetibilità di una parabola buddista un po
a buon mercato, tuttavia è proprio questa chiarezza strutturale
a offrire al cinema del regista una disciplina nuova, capace di contenerne
meglio gli eccessi: quellironia strampalata che affiora volentieri
nei momenti più inaspettati, gli accessi improvvisi di violenza
e le impennate melodrammatiche, la crudeltà come pratica rituale
e quasi contemplativa, il tutto si stempera in una narrazione che abbandona
ogni carattere ondivago e si affida a un respiro ciclico di solida prevedibilità.
Limpressione, insomma, è quella di trovarsi davanti a un
tentativo di autocontrollo il cui fine è quello probabilmente
di una maggiore possibilità comunicativa: Rapisco la
gente mainstream nel mio spazio ha dichiarato a proposito
Kim Ki-duk - , mi presento come un essere umano e chiedo loro di
stringermi la mano. Così non hanno più paura delle mie
posizioni. Questo allargamento ecumenico, o meglio, questo
consapevole spirito missionario verso le terre selvatiche del mainstream,
esclude necessariamente sia la salutare sgradevolezza dei film precedenti,
sia la loro vitale goffaggine formale, impressa dalla mano di un cineasta
autodidatta e non-cinefilo (per una volta
), intento innanzitutto
a mettere a parte gli spettatori di un palpitante teatro della crudeltà.
Primavera, estate, autunno, inverno
e ancora primavera
rimane però un film di grande fascino, dotato di una forza inusuale
delle immagini, e anche laddove possono infastidire simmetrie fin troppo
scoperte (il rinnovato rapporto tra vecchio e giovane monaco, il contrappasso
purificatorio della pietra, la conquista della pace interiore attraverso
il furore del sangue e della lussuria), alcune trovate sono folgoranti:
il ruolo fisico della scrittura, strumento di redenzione quando il giovane
monaco si libera dai fantasmi del rimorso intagliando i caratteri dipinti
dal maestro, strumento dellestremo rifiuto del mondo da parte
del vecchio, che si toglie la vita chiudendosi letteralmente il volto
con le pagine scritte; lepisodio della morte della giovane madre
con il viso coperto, anche lei inghiottita dal lago ghiacciato; il nuovo,
piccolo monaco che nel finale si avventa allegramente su una tartaruga,
sfogando quellistinto primitivo alla violenza che gia contiene
in nuce il dolore futuro della purificazione.
Kim Ki-duk ha compiuto in fondo un percorso di redenzione che lo assimila
al protagonista, depurando il suo cinema dal rancore e dalla violenza
più urticanti e raggiungendo un equilibrio che ha metabolizzato
quegli istinti fino ad ottenerne un controllo formale rigoroso e consapevole:
il fatto che sia lui stesso a interpretare infine la parte del monaco
maturo, mentre compone un ritratto del suo giovanissimo allievo, sovrappone
letteralmente le due traiettorie. A noi rimane il rimpianto di un cinema
meno strutturato ma dallimpatto (inassimilabile, furibondo) di
tuttaltra portata: forse è semplice spocchia cinefila,
o forse dobbiamo ancora fare i conti con i nostri demoni personali.
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