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Vanity Fair, USA,
2004 di Mira Nair, con Reese Witherspoon, Eileen Atkins, Jim Broadbent, Gabriel Byrne, Romola Garai, Bob Hoskins, Geraldine McEwan Dopo aver vinto nel 2001 il Leone doro a Venezia per Monsoon Wedding, Mira Nair questanno ha partecipato alla 61° Mostra del Cinema con un ben più ambizioso progetto: ha infatti portato sullo schermo un classico della letteratura inglese del 1847, Vanity Fair di W.M. Thackeray. La regista e la produttrice avevano in mente già da vari anni questidea, ma hanno dovuto rimandare per le difficoltà di lavorare su un romanzo di 900 pagine: opera titanica di simil fatta riuscì, con gli esiti noti, a Stanley Kubrick, che si ispirò ad un altro romanzo di Thackeray, per realizzare Barry Lyndon, uno dei suoi capolavori. La storia è quella di Becky Sharp, giovane arrivista che ha come scopo della vita quello di elevarsi socialmente a tutti i costi. Figlia di un artista squattrinato e di una ballerina francese, orfana fin da piccola, abbandona il collegio dove ha appreso le migliori buone maniere dellepoca e dove ha conosciuto lamica del cuore, Amelia, che le sarà molto utile introducendola nella sua famiglia. Dopo aver fatto la governante in un paesino della campagna inglese presso leccentrico Sir Pitt Crawley (interpretato da un impareggiabile Bob Hoskins), resasi conto che per contare qualcosa deve trasferirsi in città, si sposta a Londra come dama di compagnia dellanziana zia della famiglia Crawley, dove infine riesce a sposare il nipote di questultima. A quel punto nella vicenda si inserisce la Storia: mentre nasce loro figlio, Napoleone invade lEuropa ed il marito di Becky, Rawdon, parte coraggiosamente in guerra. Segue un periodo di dura povertà, cui Becky pensa bene di porre rimedio lasciandosi corteggiare dal Marchese di Steyne: quella, però, è la goccia che fa traboccare il vaso per il povero marito. E forse solo in quel momento la donna, inevitabilmente sola, si rende conto del peso dei suoi liberi comportamenti. Mira Nair, appassionata tra laltro di fotografia e pittura, costruisce un castello affascinante ed inappuntabile a livello visivo: le sue origini indiane si ravvisano immediatamente nelle musiche e nelle danze che avvolgono i protagonisti (melodie a volte fin troppo insistenti) e, soprattutto, nella scelta dei colori caldi della scenografia, dal viola allocra, dal verde allarancio, che prevalgono nelle bellissime scene ambientate in India ma sono presenti anche negli ambienti aristocratici della nobiltà inglese. Quella dei paesi esotici era allepoca una moda che si insinuava non solo nei discorsi salottieri ma anche nellarredamento e nello stile, e la regista, con il direttore della fotografia Declan Quinn (che è parte della sua storica famiglia di collaboratori, insieme alla produttrice Lydia Dean Pilcher e alla montatrice Allyson C. Johnson), riesce a cogliere perfettamente questa mentalità coloniale, apportando un tocco di originalità rispetto ad altre trasposizioni del genere, più classiche e spesso meno interessanti. Daltronde anche le origini di Thackeray sono indiane, essendo nato e vissuto lui stesso a Calcutta: dunque tra i due autori e le rispettive opere si è creato un legame fortissimo e decisamente originale. Per il resto, in un film in costume del genere il rischio del formalismo stilistico è forte, così come la tentazione di un certo perfezionismo, quando si parte da un testo in cui sono descritti minuziosamente abiti e ambienti. Il risultato è una pellicola sfarzosa e di notevole impatto visivo, in cui, però, le intricate vicende del romanzo sono necessariamente semplificate e riassunte in nome di una ricercata fluidità, con la conseguenza che si avverte come manchi qualcosa. Sarà forse la scelta di sacrificare i personaggi secondari, dallamica del cuore Amelia, le cui vicende nel romanzo svolgevano la funzione di contrasto in parallelo a quelle di Becky, alla stessa storia damore con Rawdon Crawley, che dovrebbe essere, nelle intenzioni, al centro del film, ma non riesce a catturare lattenzione quanto il percorso personale della protagonista. Daltronde anche nel testo è lo stesso personaggio di Rawdon, che allinizio della storia appare splendente e carico di fascino, a perdere carisma man mano che viene catturato da Becky, ammaliato nella sua rete. Leroina assoluta è dunque Becky, che nonostante la distanza temporale è perfettamente in grado di avvicinarsi alla nostra sensibilità, forse proprio grazie alle sue contraddizioni: la bontà danimo, la generosità e la capacità di immedesimarsi negli altri (oggi si usa molto il termine empatia) sono accompagnate dalle sue qualità principali, le uniche con cui capisce presto di poter andare avanti: lastuzia e la sensualità. Ma riesce comunque a rimanere sempre se stessa e a non appartenere che a se stessa: è questa lessenza che Reese Witherspoon sa trasmettere al suo personaggio, comunicando emozioni diverse e multiformi. Lattrice si è evidentemente immedesimata in questo ruolo con grande entusiasmo, considerando Becky - in uninterpretazione po forzata - una protofemminista, per la sua inappuntabile determinazione. Ma secondo un altro punto di vista altrettanto moderno, cè chi ha voluto vederla come un simbolo di tutti gli outsider che non trovano posto nella società, in un mondo spietato in cui tutto quello che hai conquistato può cadere miseramente da un momento allaltro e lunica cosa da fare è negoziare la propria scalata sociale. Quel che è certo è che Becky non si discosta molto da uno dei tanti personaggi che spopolano ai nostri giorni, che nella rincorsa alla visibilità si porrebbero certo meno scrupoli di lei. Si spiega così la scelta da parte degli autori di questo romanzo e non di altri: il dualismo dei personaggi e lelemento della finzione e della facciata ne fanno senza dubbio unopera senza tempo. |