Venezia 63 - 2006

Dentro la fortezza dei Leoni
di Emanuele Boccianti

 
  ^ Amore e guerra, di Woody Allen

2006, la guerra delle Mostre
C’è da credere che questa 63ma edizione del Festival rischi di passare alla storia come una delle più discusse e criticate, per una serie di motivazioni, a ben vedere, tutte collegate tra loro. Già da qualche tempo si vociferava che la Mostra dei Leoni stesse attraversando tempi duri, ma quest’anno l’ombra della già famigerata Festa del Cinema di Roma, a meno di un mese dalla fine della kermesse veneziana, ha contribuito decisivamente a conferire a tutto l’evento un atmosfera di nervosismo, per non dire di paranoia serpeggiante. Il primo giorno, io e alcuni miei colleghi di Offscreen e di altre testate veniamo accolti dalla voce di un commerciante che, com’è ovvio, basa parte del suo fatturato sulle entrate opulente di questa decade settembrina. Riconosce all’istante il nostro accento romano e domanda con malcelata preoccupazione: “E’ vero che ci porterete via anche la Mostra del Cinema?” e a poco valgono le nostre diplomatiche rassicurazioni di prammatica; la sensazione generale è quella, hai voglia a gettare acqua sul fuoco. Come inizio, non c’è male.

Heavy metal detector
Aggirandosi tra stand, passerelle e edifici vari, la percezione di stato di allerta non diminuisce, anzi. I presidi di controllo (addetti alla sicurezza con occhiali scuri, auricolare e due paia di spalle ognuno; carabinieri, polizia e guardia di finanza, tutti in tenuta antisommossa, e, dulcis in fundo, perfino la Digos) sono massicci, invasivi, prepotenti, e ci danno l’impressione di essere poco meno che intrusi in una struttura militare tipo, che so, la CIA. Metal detector e controlli al bagaglio continui ed estenuanti, ad ogni varco, tanto che spesso per passare dal punto A al punto B si rendeva necessario raddoppiare la distanza in linea d’aria per seguire un percorso obbligato con due o tre checkpoint. È per la nostra sicurezza, ci dicevano i gorilla. Davvero?

Il cinema indipendente (dagli spettatori)
Poi, il terribile giro di vite nei confronti dei poveri accrediti cinema (l’accredito cosiddetto “culturale” degli anni scorsi, quello per studenti o affiliati di associazioni culturali), evidentemente considerati alla stregua di fastidiosi questuanti, perdipiù molesti e facinorosi. Di fatto, il calendario di un “pass verde” (ribattezzato un po’ ovunque “il pass sfigato”) prevedeva pochissime proiezioni, spesso sovrapponentisi, e in orari proibitivi (mezzanotte e mezzo). Soprattutto, nessuna promiscuità era ammessa: i due circuiti, quelli per i professionisti e quelli per i ‘paria’ del festival, non potevano mai coincidere, cosa che rappresenta la vera novità scandalo di quest’anno. Ho visto un povero possessore di pass verde chiedere di essere ammesso in sala per una proiezione la sera dell’8 settembre (praticamente a Festival finito…). Niente da fare, diceva l’hostess di ferro con un sorriso abrasivo, la proiezione è riservata alla stampa. Eppure la sala era vuota o quasi, ed il ragazzo col pass verde era solo. Difficile non interpretare questa come una precisa volontà di impedire l’accesso al cinema ai non professionisti, spaventato come sembra essere il prode Müller proprio da quella categoria di spettatori storicamente più avvezzi al fischio, all’esternazione, alla critica in tempo reale, quando in sala c’è il giornalista o, ancora peggio, gli autori stessi. E infatti questa 63ma sarà consegnata alla storia come l’edizione senza fischi, l’edizione sordinata, imbelle, stordita e messa in soggezione dalla militarizzazione estenuante e dagli accessi negati. Dalla paranoia che regna sovrana.

Niente fischi, qualche cigolio
Cosa dire, d’altro canto, della valutazione della fibra artistica dell’evento? Dunque, Müller ammette, candido e machiavellico come sempre, di aver convinto Lynch a disertare Cannes col suo INLAND EMPIRE (tre ore da trombosi, per chi non sia schiavo del bollino d’autore “made in Lynch”) a suon di Leoni d’oro alla carriera, malgrado ci sembri un po’ giovane il buon David dal punto di vista artistico per cotanto premio. Il premio come miglior film va al documentario Still Life del cinese Jia Zhangke, una specie di deus ex machina che piomba dall’alto, probabilmente dopo svariati ballottaggi, a sedare una giuria nervosissima che in primis aveva tenuto fuori Crialese, per il quale si conia al volo un premio ad hoc, il Leone d’Oro per la Rivelazione (sic). Belle immagini, anche interessanti, quelle di Still Life, niente da dire, ma niente di più. Amelio, la grande speranza, tira fuori un film che pare provarci, ma poi ci rinuncia, non ha coraggio narrativo, e tarpa un po’ le ali a Castellitto che di suo ce la mette tutta. Anche per La stella che non c’è, quindi, vince l’intento ostensivo: mostrare realtà, sperando che la realtà racconti in vece del regista, dello sceneggiatore. Questo è il tratto che accomuna Still Life al film di Amelio, e almeno in questo senso è giustificato il primato riservato al film cinese, che non ha paura di mostrarsi documentario. Ma in fondo perché dovrebbe, in un’edizione in cui paiono vincere le scevre immagini autonimiche e autosignificanti? Anche perché quando qualcuno prova a cavalcare la tigre del narrabile spesso esonda nella retorica di basso rango (Oliver Stone col suo World Trade Center) o nella superfluità del remake (Neil Labute con The Wicker man).
Gli altri film? Siamo in molti a concordare su un fatto, e cioè che in generale questa 63ma ha riservato allo spettatore momenti interessanti, spesso con prodotti dal taglio o dall’ambizione documentaristica, si diceva poco sopra, ma davvero pochi brividi, poche emozioni. Succede, quando l’andamento di un festival così importante è scandito dal tema del protezionismo politico o culturale, quando il timore di perdere terreno forza la mano e spinge a creare un sistema chiuso, autonomo, o meglio autarchico, indipendente da tutto, dalla critica vera e perfino dagli spettatori, costretti a lasciare al metal detector anche i sacrosanti pubblici fischi in -non più- pubbliche piazze.


 

Venezia 63 in pillole
di Adriano Ercolani
Ecco un resoconto liofilizzato di quanto abbiamo visto quest’anno in laguna, delle (poche) pellicole che ci hanno entusiasmato ed anche di ciò che invece ha tradito le nostre aspettative.


Promossi


When the Leeves Broke. A Requiem in Four Acts
di Spike Lee
Piena lucidità narrativa al completo servizio dell’esposizione dei fatti. La denuncia politica e sociale consegue al resoconto, al documento, e non il contrario. Quattro ore per un documentario che è un capolavoro di finezza drammaturgica ed insieme di umanità.

i Figli degli uomini
di Alfonso Cuaròn.
La più realistica e devastante utopia negativa che si è vista al cinema da anni a questa parte. Cuaròn si dimostra autore versatile e potente, e mette in scena con momenti di grande maestria un film duro, preciso, splendidamente scritto.

Nuovomondo
di Emauele Crialese.
La poetica di Respiro confermata in una produzione più rischiosa e di ampio respiro. Talento realistico ed insieme onirico, Crialese conferma in pieno la bontà del suo cinema.

Bobby
di Emilio Estevez.
La vera sorpresa del festival, un’opera corale, equilibrata ed emozionante. Grande il cast d’attori tutti al loro meglio.

The Devil Wears Prada
di David Frankel.
Puro cinema di intrattenimento, lieve quanto ben scritto e soprattutto ben recitato. Ottima idea inserirlo all’interno della pesantezza di un festival.

The Queen
di Stephen Frears.
Scrittura finissima ed una grande Helen Mirren. Forse un po’ troppo smaccatamente pro-Blair, comunque un film di sicura presa sul pubblico.

Cuori
di Alain Resnais.
Malinconico e dolcissimo “divertissement” di un cineasta immenso, che ha capito come fare cinema per se stesso continuando a toccare le corde del pubblico.

Suely in the Sky
di Karim Ainouz.
Realismo e forte impatto emotivo in un film che racconta senza falsi melodrammi la psicologia complessa di una ragazza alle prese con un mondo che non sente suo. Commovente.

Black book
di Paul Verhoeven
Un film in cui il regista mette in scena le sue ossessioni sensuali e viscerali, “sporcando” la pellicola di sangue, sesso, escrementi, ma che funziona anche come spy story, fuori da un contesto hollywoodiano (fortunatamente).

Paprika
di Kon Satoshi
Una trama arzigogolata ma godibile per far esplodere sullo schermo invenzioni visive di un lussureggiante onirismo. Per tutti quelli che hanno amato La città incantata di Miyazaki, ma che sentono anche il fascino hi-tech di Ghost in the shell.


Rimandati


The Black Dahlia
di Brian De Palma
Formalmente ineccepibile, il film tradisce però la dolorosa anima dei personaggi di Ellroy. Tutti gli attori sono fuori parte, tranne la bravissima Mia Kirshner.

Infamous
di Douglas McGrath
Ben scritto, il film gemello di Capote non restituisce però le ambiguità ed il cinismo di un artista così controverso, o almeno non come aveva fatto Miller.

I Don’t want to Sleep Alone
di Tsai Ming-Liang
E’ un cinema che si può amare anche quando lo si sente come insostenibile. Alcune trovate sono irresistibili, ma si perdono in un ritmo che uccide la passione.

l’Albero della vita
di Darren Aronofsky.
Inizio folgorante, finale coinvolgente, ma in mezzo una sceneggiatura che sembra una puntata di “Beautiful”. Talento visivo sprecato.

La stella che non c’è
di Gianni Amelio.
Il film più fragile di Amelio, che non mantiene le grandi premesse dell’incipit. Una cartolina dalla Cina illustrata da un grande Castellitto.

Exiled
di Johnnie To.
Solita grande competenza registica per un’opera che però non possiede i guizzi esaltanti del miglior cinema di uno dei maestri dell’action.

Para entrar a vivir
di Jaume Balaguerò
Un prodotto dalla confezione ibrida (come passerà la nostra dogana un mediometraggio di 66 minuti?) che conferma il discreto mestiere del regista a manovrare situazioni e immagini per mettere in trappola lo spettatore, sempre che questi chiuda un occhio sulla pretestuosità dell’ordito narrativo.


Bocciati



Still Life
di Jia Zhang-Ke
Evidentemente bastano delle belle immagini per guadagnarsi un Leone d’Oro. Script alla camomilla, ritmo al cianuro.

INLAND EMPIRE
di David Lynch
Onanismo della visione. Tre ore di video-arte presuntuosa, che qualcuno ha addirittura scambiato per cinema del futuro…

The Wicker Man
di Neil LaBute
Ma dov’è finito l’autore sferzante e cinico degli inizi? Un thriller senza la minima tensione, dove l’interesse è suscitato solo dalla Burstyn che si trucca da Braveheart.

Non prendere impegni stasera
di Gianluca Maria Tavarelli
La peggiore idea di cinema italiano, dove la sfiga e la delusione imperano su personaggi imbelli.

World Trade Center
di Oliver Stone
Uno scandaloso atto di ruffianeria nei confronti di un sistema che in questo modo dimostra di aver vinto. Oliver Stone si immola alla retorica da supermercato.

The U.S. vs. John Lennon
di David Leaf e John Scheinfeld
Quello che un documentario non dovrebbe essere: un ritratto modaiolo di un epoca basato su una teoria che non interessa nessuno.

Gedo Senki
di Miyazaki Goro
Pot-pourri di poetiche e visioni paterne, mutuate dal figlio quando assisteva il grande Hayao allo Studio Ghibli. Ma talento e originalità non si trasmettono col dna.