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^ Amore e guerra,
di Woody Allen Cè da credere che questa 63ma edizione del Festival rischi di passare alla storia come una delle più discusse e criticate, per una serie di motivazioni, a ben vedere, tutte collegate tra loro. Già da qualche tempo si vociferava che la Mostra dei Leoni stesse attraversando tempi duri, ma questanno lombra della già famigerata Festa del Cinema di Roma, a meno di un mese dalla fine della kermesse veneziana, ha contribuito decisivamente a conferire a tutto levento un atmosfera di nervosismo, per non dire di paranoia serpeggiante. Il primo giorno, io e alcuni miei colleghi di Offscreen e di altre testate veniamo accolti dalla voce di un commerciante che, comè ovvio, basa parte del suo fatturato sulle entrate opulente di questa decade settembrina. Riconosce allistante il nostro accento romano e domanda con malcelata preoccupazione: E vero che ci porterete via anche la Mostra del Cinema? e a poco valgono le nostre diplomatiche rassicurazioni di prammatica; la sensazione generale è quella, hai voglia a gettare acqua sul fuoco. Come inizio, non cè male. Heavy metal detector Aggirandosi tra stand, passerelle e edifici vari, la percezione di stato di allerta non diminuisce, anzi. I presidi di controllo (addetti alla sicurezza con occhiali scuri, auricolare e due paia di spalle ognuno; carabinieri, polizia e guardia di finanza, tutti in tenuta antisommossa, e, dulcis in fundo, perfino la Digos) sono massicci, invasivi, prepotenti, e ci danno limpressione di essere poco meno che intrusi in una struttura militare tipo, che so, la CIA. Metal detector e controlli al bagaglio continui ed estenuanti, ad ogni varco, tanto che spesso per passare dal punto A al punto B si rendeva necessario raddoppiare la distanza in linea daria per seguire un percorso obbligato con due o tre checkpoint. È per la nostra sicurezza, ci dicevano i gorilla. Davvero? Il cinema indipendente (dagli spettatori) Poi, il terribile giro di vite nei confronti dei poveri accrediti cinema (laccredito cosiddetto culturale degli anni scorsi, quello per studenti o affiliati di associazioni culturali), evidentemente considerati alla stregua di fastidiosi questuanti, perdipiù molesti e facinorosi. Di fatto, il calendario di un pass verde (ribattezzato un po ovunque il pass sfigato) prevedeva pochissime proiezioni, spesso sovrapponentisi, e in orari proibitivi (mezzanotte e mezzo). Soprattutto, nessuna promiscuità era ammessa: i due circuiti, quelli per i professionisti e quelli per i paria del festival, non potevano mai coincidere, cosa che rappresenta la vera novità scandalo di questanno. Ho visto un povero possessore di pass verde chiedere di essere ammesso in sala per una proiezione la sera dell8 settembre (praticamente a Festival finito ). Niente da fare, diceva lhostess di ferro con un sorriso abrasivo, la proiezione è riservata alla stampa. Eppure la sala era vuota o quasi, ed il ragazzo col pass verde era solo. Difficile non interpretare questa come una precisa volontà di impedire laccesso al cinema ai non professionisti, spaventato come sembra essere il prode Müller proprio da quella categoria di spettatori storicamente più avvezzi al fischio, allesternazione, alla critica in tempo reale, quando in sala cè il giornalista o, ancora peggio, gli autori stessi. E infatti questa 63ma sarà consegnata alla storia come ledizione senza fischi, ledizione sordinata, imbelle, stordita e messa in soggezione dalla militarizzazione estenuante e dagli accessi negati. Dalla paranoia che regna sovrana. Niente fischi, qualche cigolio Cosa dire, daltro canto, della valutazione della fibra artistica dellevento? Dunque, Müller ammette, candido e machiavellico come sempre, di aver convinto Lynch a disertare Cannes col suo INLAND EMPIRE (tre ore da trombosi, per chi non sia schiavo del bollino dautore made in Lynch) a suon di Leoni doro alla carriera, malgrado ci sembri un po giovane il buon David dal punto di vista artistico per cotanto premio. Il premio come miglior film va al documentario Still Life del cinese Jia Zhangke, una specie di deus ex machina che piomba dallalto, probabilmente dopo svariati ballottaggi, a sedare una giuria nervosissima che in primis aveva tenuto fuori Crialese, per il quale si conia al volo un premio ad hoc, il Leone dOro per la Rivelazione (sic). Belle immagini, anche interessanti, quelle di Still Life, niente da dire, ma niente di più. Amelio, la grande speranza, tira fuori un film che pare provarci, ma poi ci rinuncia, non ha coraggio narrativo, e tarpa un po le ali a Castellitto che di suo ce la mette tutta. Anche per La stella che non cè, quindi, vince lintento ostensivo: mostrare realtà, sperando che la realtà racconti in vece del regista, dello sceneggiatore. Questo è il tratto che accomuna Still Life al film di Amelio, e almeno in questo senso è giustificato il primato riservato al film cinese, che non ha paura di mostrarsi documentario. Ma in fondo perché dovrebbe, in unedizione in cui paiono vincere le scevre immagini autonimiche e autosignificanti? Anche perché quando qualcuno prova a cavalcare la tigre del narrabile spesso esonda nella retorica di basso rango (Oliver Stone col suo World Trade Center) o nella superfluità del remake (Neil Labute con The Wicker man). Gli altri film? Siamo in molti a concordare su un fatto, e cioè che in generale questa 63ma ha riservato allo spettatore momenti interessanti, spesso con prodotti dal taglio o dallambizione documentaristica, si diceva poco sopra, ma davvero pochi brividi, poche emozioni. Succede, quando landamento di un festival così importante è scandito dal tema del protezionismo politico o culturale, quando il timore di perdere terreno forza la mano e spinge a creare un sistema chiuso, autonomo, o meglio autarchico, indipendente da tutto, dalla critica vera e perfino dagli spettatori, costretti a lasciare al metal detector anche i sacrosanti pubblici fischi in -non più- pubbliche piazze. |
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Ecco un resoconto
liofilizzato di quanto abbiamo visto questanno in laguna, delle
(poche) pellicole che ci hanno entusiasmato ed anche di ciò che
invece ha tradito le nostre aspettative. Promossi When the Leeves Broke. A Requiem in Four Acts di Spike Lee Piena lucidità narrativa al completo servizio dellesposizione dei fatti. La denuncia politica e sociale consegue al resoconto, al documento, e non il contrario. Quattro ore per un documentario che è un capolavoro di finezza drammaturgica ed insieme di umanità. i Figli degli uomini di Alfonso Cuaròn. La più realistica e devastante utopia negativa che si è vista al cinema da anni a questa parte. Cuaròn si dimostra autore versatile e potente, e mette in scena con momenti di grande maestria un film duro, preciso, splendidamente scritto. Nuovomondo di Emauele Crialese. La poetica di Respiro confermata in una produzione più rischiosa e di ampio respiro. Talento realistico ed insieme onirico, Crialese conferma in pieno la bontà del suo cinema. Bobby di Emilio Estevez. La vera sorpresa del festival, unopera corale, equilibrata ed emozionante. Grande il cast dattori tutti al loro meglio. The Devil Wears Prada di David Frankel. Puro cinema di intrattenimento, lieve quanto ben scritto e soprattutto ben recitato. Ottima idea inserirlo allinterno della pesantezza di un festival. The Queen di Stephen Frears. Scrittura finissima ed una grande Helen Mirren. Forse un po troppo smaccatamente pro-Blair, comunque un film di sicura presa sul pubblico. Cuori di Alain Resnais. Malinconico e dolcissimo divertissement di un cineasta immenso, che ha capito come fare cinema per se stesso continuando a toccare le corde del pubblico. Suely in the Sky di Karim Ainouz. Realismo e forte impatto emotivo in un film che racconta senza falsi melodrammi la psicologia complessa di una ragazza alle prese con un mondo che non sente suo. Commovente. Black book di Paul Verhoeven Un film in cui il regista mette in scena le sue ossessioni sensuali e viscerali, sporcando la pellicola di sangue, sesso, escrementi, ma che funziona anche come spy story, fuori da un contesto hollywoodiano (fortunatamente). Paprika di Kon Satoshi Una trama arzigogolata ma godibile per far esplodere sullo schermo invenzioni visive di un lussureggiante onirismo. Per tutti quelli che hanno amato La città incantata di Miyazaki, ma che sentono anche il fascino hi-tech di Ghost in the shell. Rimandati The Black Dahlia di Brian De Palma Formalmente ineccepibile, il film tradisce però la dolorosa anima dei personaggi di Ellroy. Tutti gli attori sono fuori parte, tranne la bravissima Mia Kirshner. Infamous di Douglas McGrath Ben scritto, il film gemello di Capote non restituisce però le ambiguità ed il cinismo di un artista così controverso, o almeno non come aveva fatto Miller. I Dont want to Sleep Alone di Tsai Ming-Liang E un cinema che si può amare anche quando lo si sente come insostenibile. Alcune trovate sono irresistibili, ma si perdono in un ritmo che uccide la passione. lAlbero della vita di Darren Aronofsky. Inizio folgorante, finale coinvolgente, ma in mezzo una sceneggiatura che sembra una puntata di Beautiful. Talento visivo sprecato. La stella che non cè di Gianni Amelio. Il film più fragile di Amelio, che non mantiene le grandi premesse dellincipit. Una cartolina dalla Cina illustrata da un grande Castellitto. Exiled di Johnnie To. Solita grande competenza registica per unopera che però non possiede i guizzi esaltanti del miglior cinema di uno dei maestri dellaction. Para entrar a vivir di Jaume Balaguerò Un prodotto dalla confezione ibrida (come passerà la nostra dogana un mediometraggio di 66 minuti?) che conferma il discreto mestiere del regista a manovrare situazioni e immagini per mettere in trappola lo spettatore, sempre che questi chiuda un occhio sulla pretestuosità dellordito narrativo. Bocciati Still Life di Jia Zhang-Ke Evidentemente bastano delle belle immagini per guadagnarsi un Leone dOro. Script alla camomilla, ritmo al cianuro. INLAND EMPIRE di David Lynch Onanismo della visione. Tre ore di video-arte presuntuosa, che qualcuno ha addirittura scambiato per cinema del futuro The Wicker Man di Neil LaBute Ma dovè finito lautore sferzante e cinico degli inizi? Un thriller senza la minima tensione, dove linteresse è suscitato solo dalla Burstyn che si trucca da Braveheart. Non prendere impegni stasera di Gianluca Maria Tavarelli La peggiore idea di cinema italiano, dove la sfiga e la delusione imperano su personaggi imbelli. World Trade Center di Oliver Stone Uno scandaloso atto di ruffianeria nei confronti di un sistema che in questo modo dimostra di aver vinto. Oliver Stone si immola alla retorica da supermercato. The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld Quello che un documentario non dovrebbe essere: un ritratto modaiolo di un epoca basato su una teoria che non interessa nessuno. Gedo Senki di Miyazaki Goro Pot-pourri di poetiche e visioni paterne, mutuate dal figlio quando assisteva il grande Hayao allo Studio Ghibli. Ma talento e originalità non si trasmettono col dna. |