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Capote, U.S.A., 2005
di Bennett Miller, con Philip Seymour Hoffmann, Catherine Keener, Clifton Collins Jr, Chris Cooper.
Il biopic come forma di occultamento
Come sempre, quando un film-biografia su un intellettuale o un artista che sia controverso e di genio arriva da Hollywood alle soglie dell’Oscar con candidature e recensioni flautate dei columnists d’oltroceano, la prima sensazione che si prova è quella della diffidenza, del sospetto di contraffazione per sguardi avidi di sregolatezze a buon mercato, o magari di apologie di scalmanati, ma geniali e, signora mia, così poco convenzionali. Così l’arte si riduce alla biografia, nemmeno alla vita, vale a dire all’autobiografia che un autore stesso si costruisce, ma ciò che, secondo le regole di un genere con le sue stereotipie, dovrebbe fare un artista. Di conseguenza si esce da una di queste pellicole (esempio ultimo Ray) con la sensazione di non aver appreso nulla su un metodo estetico, neppure sul mistero del rapporto tra una vita e l’arte che ne promana, ma nonostante ciò si è sicuri di aver capito tutto della sensibilità di un genio avendo tenuto il conto di tutte le sue stramberie mostrate a pieno schermo. Così quando ci si avvicina all’oggetto Capote, la prima sensazione non sembra del tutto positiva. Una ricostruzione d’ambiente raffinatissima, ed è logico in una produzione hollywoodiana, adeguata per un prodotto ad orologeria, una recitazione magnifica di Philip Seymour Hoffmann, abilissimo, come già Jamie Foxx o David Strathairn o Jim Carrey a impersonare un personaggio imitandone i vezzi minimi arrivando ad una mimesi quasi completa. Sembrerebbe un veicolo per lanciare uno dei migliori caratteristi hollywoodiani nell’Olimpo delle stelle di calibro rotocalco-catodico, prova ne sia anche la regia classica, cosa che, all’inizio pare segno di assenza di slanci. Eppure non è così, perché, ultimamente, nel genere biopic, sono stati inseriti molti elementi spurii, riflessioni tutt’altro che convenzionali sul modo di intendere il rapporto tra sguardo registico retrospettivo e tendenzialmente ruffiano nei confronti dei voyeurismi del pubblico pagante e artista rappresentato. Alla manipolazione o alla presentazione piatta di episodi si sostituisce l’analisi dell’artista come opera, come tentativo del rappresentato di fare mondo della sua poetica. E dietro il classicismo e la fedeltà alla lettera dello script di Dan Futtermann da parte di Bennett Miller (regista e sceneggiatore sono entrambi esordienti, poi dicono che Hollywood non partorisce più come minimo registi solidi, per non parlare di autori), comincia far capolino non il sospetto del pattume, ma l’ombra dell’opacità, di una grammatica, semplice, rigorosissima, che svela, ma allo stesso tempo cela ciò che lo scrittore, in questo caso Capote, sta pensando e sta passando. I conflitti sono accennati, ma non sviluppati con precisione nella narrazione, come in una biografia tradizionale e a tesi, bensì lasciati lì, pronti a dare luogo a nuovi studi, a nuove analisi, mentre il carattere, la personalità, la soggettività dell’artista Capote rimane indecidibile, nitida nelle apparenze mimetiche, sfocata nei tratti caratteriali. Il mistero risplende della sua propria luce, per dirla con Karl Kraus.
La messa in abisso del dandy
Truman Capote è stato uno dei tipi più esemplificativi dell’intellettuale dandy, cinico, distaccato, edonista, esibizionista della sua raffinatezza, frequentatore nonché sparlatore della buona società che non si sogna minimamente di non frequentare. In apparenza, forse anche in realtà un personaggio odioso e rinchiuso nella corazza del personaggio da lui stesso cucito su misura per stare al mondo, come già successo centinaia di volte, almeno da Oscar Wilde ai giorni nostri, senza nemmeno più la vena decadente di quest’ultimo o di Huysmans. Questo dannunzianesimo in fondo è una manifestazione caricaturale di un fortissimo connotato antiborghese, o comunque contrario alla società di massa, un atteggiamento che fa pendant con quello dell’altra caricatura tragica (anche questa voluta) dell’intellettuale del novecento, l’avanguardista. In entrambi il moto antiborghese, da un lato diventa ostentazione di libertà, dall’altro condizione tragica, quasi pagliaccesca, di solitudine. Con un elemento in più per la figura del dandy. Che stando questi lontano da ogni convenzione, da ogni movimento, partecipando alla vita di società con un massimo di scetticismo ostentato, rimane figura sostanzialmente lontana, e soprattutto il suo sguardo potrebbe avere una pretesa di oggettività lucida, che un’altra tipologia di intellettuale, invischiato nelle dinamiche sociali, non potrebbe avere. Non solo, proprio questa lucidità assente dello sguardo consente al dandy di dare paradossale bellezza anche al fatto più trito e banale per virtù di stile. Ebbene, film da questo punto di vita pienamente postmoderno, Capote mostra pienamente come il dandy, il flaneur di baudelairiana memoria è rinchiuso nel mondo, non solo non può uscirne, ma non può neanche nobilitarlo con uno sguardo lontano e oggettivo, per semplice virtù di stile. Capote, con la sua linearità registica classica e con la sua misura diventa una messa in abisso. Il voyeur-regista-vampiro Capote, che va a seguire un sordido caso di cronaca per farne un racconto quindi un oggetto stilisticamente rinomato, trasforma in un primo momento tutto lo spazio scenico della narrazione in un set perfetto dove la figura del dandy è regista e primattore e sa costruire la dimensione auratica dell’opera d’arte (e con lui Miller che lo segue dappresso). Ma poi lentamente rimane invischiato nella stessa sequenza narrativa che dovrebbe dominare. Affezionarsi ad una delle vittime, dei due detenuti condannati rivivendo tutti i propri conflitti nascosti significa per Capote entrare nella messa in scena non tanto come protagonista sempre in pieno possesso della situazione, ma come attore, personaggio agito dalle situazioni. La stessa perfezione della forma, ricercata da un autore della costa, redattore del New Yorker, deve sprofondare nella vita di provincia americana, nei suoi non sensi. In questo la strategia del film è l’esatto contrario di quella di un biopic tradizionale. Non fa luce, così come Capote scrittore non fa luce per la sua abilità stilistica in “A sangue freddo”, ma per il fatto di doversi aprire ad una situazione inaspettata, una relazione affettiva
Il confronto e il senso
L’intellettuale del novecento Truman Capote, da scrittore raffinato diventa artista (nel film), nel momento esatto in cui prende coscienza dell’inaspettato, che scombina il suo progetto di perfezione a tavolino e in cui rimane intrappolato nel suo stesso gioco. Soprattutto Capote non può uscire da quel gioco nemmeno dopo aver compreso di essere un vampiro, anzi deve mettere anche quel dolore nella scrittura. Il senso del film allora torna nella formula inaspettata (non nuova dopo Man on the Moon e Confessions of a Dangerous Mind) che il personaggio rappresentato diventi la sua stessa opera, si perda in essa, per consentire a sé stesso e agli altri di evolvere. E’ il percorso della cultura, e dell’arte nella cultura. Solo Capote deve aprirsi al dolore, rimanere nelle pastoie del suo stesso ruolo, abbandonando ogni distacco bandistico, in una frase, deve sporcarsi le mani. Allo scrittore non è consentito neanche arrivare alla fine come al detenuto, ma deve sopravvivere e convivere con ciò che ha visto per farne scrittura e condivisione. In questo Capote è un film sulla scrittura, non una biografia, o meglio sul modo della biografia di farsi scrittura |