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Quando appare un film dalla struttura
e dalla forte ossessione linguistica come quello di Jia Zhang-Ke, soprattutto
quando arriva un premio importante come il Leone d oro a Venezia
molto spesso, notazione privata, il primo impulso, proprio per gli addetti
ai lavori, è quello di riflettere criticamente su quella deprecata
tipologia di pellicole che rientrano nella definizione di film da festival.
Pellicole dove lambizione a mostrare una ricerca espressiva può
mutarsi in una paradossale mancanza di tensione stilistica, accomodarsi
in uno sgradevole sussiego accademico, magari citando o orecchiando
classici della filmografia dautore europea o asiatica di un ben
determinato periodo storico (la Nouvelle Vague e tutti i
Nuovi cinema apparsi un po ovunque in Europa e Asia
negli anni sessanta). Sgombriamo il campo dagli equivoci: Still
Life, che pure si rifiuta di trattare una o più storie
se non negli accenni rilevati nel campo lungo e nellattesa delle
inquadrature lunghe e tenute placidamente senza quasi seguire la narrazione,
non appartiene a questa categoria e bene ha fatto la giuria veneziana
a riconoscerlo. Si è accennato nel sottotitolo al campo lungo:
ebbene il campo lungo è, in primo luogo, quello di un evento
epocale, la costruzione di un enorme diga sullo Yangtze e di un
bacino idrico che portano allallagamento di un vasta zona densamente
popolata e all evacuazione forzata di un numero non indifferente
di persone. La storia dunque, la città di Fengjie come natura
morta, o meglio, come nella traduzione inglese dellespressione
natura morta, vita sospesa. A inquadrature fantasmatiche ma a volte
di vasto respiro paesaggistico (quasi mai lirico, però), l
evento epocale, economicamente macrostrutturale (i due termini si legano
pur non arrivando a coincidere), si abbinano le vicende minimali, appena
intrecciate, anzi giustapposte luna allaltra, dei due protagonisti,
lelemento microstrutturale, le vite quotidiane che dalla trasformazione
vengono stravolte con assoluta indifferenza. Si è parlato di
neorealismo, ma se per neorealismo si intende semplicemente attenzione
alla realtà e non stile il termine può risultare improprio
e anche fuorviante. Non solo perché in una pellicola neorealista
raramente si sono viste tante accensioni surreali o assurde o inaspettate
(forse si può pensare a pellicole di difficile definizione come
Miracolo a Milano o la Macchina ammazzacattivi),
come quelle che punteggiano con una certa costanza il film di Jia Zhang-Ke,
ma anche per il fatto che la m.d.p non si sofferma sulle storie e sui
microeventi eventi dei personaggi, ma sembra seguirli distrattamente,
divagando, soffermandosi sugli oggetti, sugli ambienti, sugli scorci
di una città che va lentamente demolendosi e svuotandosi. Se
di pedinamento si può parlare siamo di fronte ad un pedinamento
distratto, curioso di esulare dalle situazioni descritte, piuttosto
che di soffermarcisi e di focalizzarsi su di esse. Ma appunto la scelta
poetica del regista, che mette in scacco il realismo, ma afferma la
necessità di un punto di vista il più possibile decentrato
e non ufficiale sul reale, è quella di istituire una tensione
continua, per quanto anchessa costruita per accenni, tra la realtà
imponente del complesso delle tre dighe e quella delle vite quotidiane
dei protagonisti. Soffermarsi visivamente sul vagabondaggio dei poveri
Han Sanming e Zhao Tao vorrebbe dire mettere sullo sfondo, sfocare,
quellelemento storico che invece determina sotto molti aspetti
il vagabondaggio. Molto meglio invece inserire il lento aggirarsi dei
due protagonisti in una città fantasma, in complesse cornici
scenografiche a volte persino surreali (ma la modernità industriale
con il vortice impazzito di trasformazioni che istituisce, crea, agli
occhi di chi la subisce, effetti surreali, come già era visibile
nellepopea ferroviaria di molto cinema western americano). Vedere
un povero minatore e una moglie abbandonata frugare letteralmente tra
le rovine di una città, alla ricerca del proprio passato, nel
tentativo di ricostruire un futuro possibile, è un modo di privilegiare
il vagabondaggio rispetto al percorso. Il percorso è preordinato,
il vagabondaggio no. Seguire con perfetta scansione narrativa i due
protagonisti significherebbe affermare che i due, con decisione, seguono
la loro strada imperterriti, senza titubanza, senza quasi rendersi conto
della catastrofe che li ha investiti. Qui invece abbiamo dei naufraghi,
coscienti al massimo di essersi perduti. Ecco il titolo del film, vita
sospesa. Cè la ricerca di un percorso di vita, di un progetto,
ma questo deve per forza scontrarsi col vagabondaggio allinterno
di forze, la natura come la storia, sentite come incombenti se non minacciose,
lontane, indifferenti. I sentimenti che sbocciano attraverso gli oggetti
nel film, devono essere appena accennati e quasi persi nel continuum
sonoro dei lavori di demolizione per acquisire forza e commozione. Il
fatto di vedere un disco volante nel cielo di Fengjie o di osservare
lo scheletro di una palazzo partire come un razzo non sono, a questo
punto, scelte arbitrarie di un regista ansioso di vedersi riconoscere
lo statuto di autore, ma sono il tentativo in soggettiva dei due personaggi
di familiarizzare con la bizzarria di ciò che li circonda, di
sentirla, se non di dominarla di entrarci in relazione. Dallo spaesamento,
più memore di Antonioni o di molto cinema asiatico contemplativo
(in modi diversi si possono citare Ozu o Hou Hsiao Hsien), emerge una,
pur vaga, possibilità di orientamento. Postilla: come per ogni
film proveniente da regime autoritario (ma oramai anche dallAmerica
bushiana), sempre si rende presente una piccola o grande, comunque sterile,
polemica sul tasso di critica sociopolitica rilevabile nella pellicola
con conseguente domanda: è pro o contro? A parte la volontà
di ridurre complesse scelte di un percorso poetico-registico non tanto
alla politica, ma alla cronaca politica spicciola in nome di un sentire
militante ancora più spicciolo e arido, la domanda è mal
posta: infatti il vero quesito è se emerga dalla regia di Jia
Zhang-Ke uno sguardo sfaccettato, anche ferocemente critico sulla Cina
(la splendida scena del ponte che si illumina, allegoria del ridicolo
nazionalistico di regime, potente eppure appena accennata), pur nellassenza
di simboli espliciti, impossibili in certi contesti dove il rischio
è come minimo di non lavorare. La risposta è si, la critica
cè, ben dissimulata ma anche presente, amara, perfino divertita.
Ma daltronde queste polemiche, è bene dirlo, molto spesso,
nascondono un vuoto interpretativo, lo stesso vuoto che impedisce alla
quotidianistica nazionale di capire come un cineasta come Eastwood riesca
a costruire un trattato sullassurdo bellico senza ricorrere alla
pamphlettistica più stanca. E giù con le solite domande:
ma Eastwood è di destra, di sinistra, di centro?. Speriamo che
in questo caso, di polemiche simili, ce ne siano il meno possibile e
si veda il contenuto poetico, quindi politico, del lavoro di Jia. Nellottica
di chi scrive è più che sufficiente.
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