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Still life
Sanxia haoren, Cina, 2006
di Jia Zhang-Ke, con Han Sanming, Zhao Thao

Lo spaesamento del campo lungo
recensione di Francesco Rosetti



Quando appare un film dalla struttura e dalla forte ossessione linguistica come quello di Jia Zhang-Ke, soprattutto quando arriva un premio importante come il Leone d’ oro a Venezia molto spesso, notazione privata, il primo impulso, proprio per gli addetti ai lavori, è quello di riflettere criticamente su quella deprecata tipologia di pellicole che rientrano nella definizione di film da festival. Pellicole dove l’ambizione a mostrare una ricerca espressiva può mutarsi in una paradossale mancanza di tensione stilistica, accomodarsi in uno sgradevole sussiego accademico, magari citando o orecchiando classici della filmografia d’autore europea o asiatica di un ben determinato periodo storico (la “Nouvelle Vague” e tutti i “Nuovi cinema” apparsi un po’ ovunque in Europa e Asia negli anni sessanta). Sgombriamo il campo dagli equivoci: Still Life, che pure si rifiuta di trattare una o più storie se non negli accenni rilevati nel campo lungo e nell’attesa delle inquadrature lunghe e tenute placidamente senza quasi seguire la narrazione, non appartiene a questa categoria e bene ha fatto la giuria veneziana a riconoscerlo. Si è accennato nel sottotitolo al campo lungo: ebbene il campo lungo è, in primo luogo, quello di un evento epocale, la costruzione di un’ enorme diga sullo Yangtze e di un bacino idrico che portano all’allagamento di un vasta zona densamente popolata e all’ evacuazione forzata di un numero non indifferente di persone. La storia dunque, la città di Fengjie come natura morta, o meglio, come nella traduzione inglese dell’espressione natura morta, vita sospesa. A inquadrature fantasmatiche ma a volte di vasto respiro paesaggistico (quasi mai lirico, però), l’ evento epocale, economicamente macrostrutturale (i due termini si legano pur non arrivando a coincidere), si abbinano le vicende minimali, appena intrecciate, anzi giustapposte l’una all’altra, dei due protagonisti, l’elemento microstrutturale, le vite quotidiane che dalla trasformazione vengono stravolte con assoluta indifferenza. Si è parlato di neorealismo, ma se per neorealismo si intende semplicemente attenzione alla realtà e non stile il termine può risultare improprio e anche fuorviante. Non solo perché in una pellicola neorealista raramente si sono viste tante accensioni surreali o assurde o inaspettate (forse si può pensare a pellicole di difficile definizione come Miracolo a Milano o la Macchina ammazzacattivi), come quelle che punteggiano con una certa costanza il film di Jia Zhang-Ke, ma anche per il fatto che la m.d.p non si sofferma sulle storie e sui microeventi eventi dei personaggi, ma sembra seguirli distrattamente, divagando, soffermandosi sugli oggetti, sugli ambienti, sugli scorci di una città che va lentamente demolendosi e svuotandosi. Se di pedinamento si può parlare siamo di fronte ad un pedinamento distratto, curioso di esulare dalle situazioni descritte, piuttosto che di soffermarcisi e di focalizzarsi su di esse. Ma appunto la scelta poetica del regista, che mette in scacco il realismo, ma afferma la necessità di un punto di vista il più possibile decentrato e non ufficiale sul reale, è quella di istituire una tensione continua, per quanto anch’essa costruita per accenni, tra la realtà imponente del complesso delle tre dighe e quella delle vite quotidiane dei protagonisti. Soffermarsi visivamente sul vagabondaggio dei poveri Han Sanming e Zhao Tao vorrebbe dire mettere sullo sfondo, sfocare, quell’elemento storico che invece determina sotto molti aspetti il vagabondaggio. Molto meglio invece inserire il lento aggirarsi dei due protagonisti in una città fantasma, in complesse cornici scenografiche a volte persino surreali (ma la modernità industriale con il vortice impazzito di trasformazioni che istituisce, crea, agli occhi di chi la subisce, effetti surreali, come già era visibile nell’epopea ferroviaria di molto cinema western americano). Vedere un povero minatore e una moglie abbandonata frugare letteralmente tra le rovine di una città, alla ricerca del proprio passato, nel tentativo di ricostruire un futuro possibile, è un modo di privilegiare il vagabondaggio rispetto al percorso. Il percorso è preordinato, il vagabondaggio no. Seguire con perfetta scansione narrativa i due protagonisti significherebbe affermare che i due, con decisione, seguono la loro strada imperterriti, senza titubanza, senza quasi rendersi conto della catastrofe che li ha investiti. Qui invece abbiamo dei naufraghi, coscienti al massimo di essersi perduti. Ecco il titolo del film, vita sospesa. C’è la ricerca di un percorso di vita, di un progetto, ma questo deve per forza scontrarsi col vagabondaggio all’interno di forze, la natura come la storia, sentite come incombenti se non minacciose, lontane, indifferenti. I sentimenti che sbocciano attraverso gli oggetti nel film, devono essere appena accennati e quasi persi nel continuum sonoro dei lavori di demolizione per acquisire forza e commozione. Il fatto di vedere un disco volante nel cielo di Fengjie o di osservare lo scheletro di una palazzo partire come un razzo non sono, a questo punto, scelte arbitrarie di un regista ansioso di vedersi riconoscere lo statuto di autore, ma sono il tentativo in soggettiva dei due personaggi di familiarizzare con la bizzarria di ciò che li circonda, di sentirla, se non di dominarla di entrarci in relazione. Dallo spaesamento, più memore di Antonioni o di molto cinema asiatico contemplativo (in modi diversi si possono citare Ozu o Hou Hsiao Hsien), emerge una, pur vaga, possibilità di orientamento. Postilla: come per ogni film proveniente da regime autoritario (ma oramai anche dall’America bushiana), sempre si rende presente una piccola o grande, comunque sterile, polemica sul tasso di critica sociopolitica rilevabile nella pellicola con conseguente domanda: è pro o contro? A parte la volontà di ridurre complesse scelte di un percorso poetico-registico non tanto alla politica, ma alla cronaca politica spicciola in nome di un sentire militante ancora più spicciolo e arido, la domanda è mal posta: infatti il vero quesito è se emerga dalla regia di Jia Zhang-Ke uno sguardo sfaccettato, anche ferocemente critico sulla Cina (la splendida scena del ponte che si illumina, allegoria del ridicolo nazionalistico di regime, potente eppure appena accennata), pur nell’assenza di simboli espliciti, impossibili in certi contesti dove il rischio è come minimo di non lavorare. La risposta è si, la critica c’è, ben dissimulata ma anche presente, amara, perfino divertita. Ma d’altronde queste polemiche, è bene dirlo, molto spesso, nascondono un vuoto interpretativo, lo stesso vuoto che impedisce alla quotidianistica nazionale di capire come un cineasta come Eastwood riesca a costruire un trattato sull’assurdo bellico senza ricorrere alla pamphlettistica più stanca. E giù con le solite domande: ma Eastwood è di destra, di sinistra, di centro?. Speriamo che in questo caso, di polemiche simili, ce ne siano il meno possibile e si veda il contenuto poetico, quindi politico, del lavoro di Jia. Nell’ottica di chi scrive è più che sufficiente.