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^ Lust, caution,
di Ang Lee Lasciamo ai rotocalchi, ora che si è concluso il rumore glamour dellevento, i vari battibecchi sugli "scandali" da festival (le esibizioni erettili, le offese ai registi cult, le ammucchiate copiose, le nostalgie brigatiste(?) e tutto il resto), e proviamo a considerare il senso di questa Venezia 64 dal punto di vista che Off-screen predilige. E cioè le indicazioni che la Mostra ci fornisce su come stia andando il cinema, ancora prima di dove stia andando. Scremiamo anche le venature politiche - per così dire - che hanno portato la giuria a ripudiare buona parte del regolamento delle premiazioni, per spargere riconoscimenti un po ovunque, accanendosi su alcune opere e facendo salire sul carro dei vincitori anche chi magari fino in fondo non se lo meritava, ma che comunque così ha potuto beneficiare della squisita generosità italiana. Quello che resta è la possibilità di fare un punto della situazione: cosa decide di raccontare oggi il cinema dautore (in una accezione forse allargata, ma comunque consona allo spirito della manifestazione), e come sceglie di raccontarlo. La guerra Müller ha dichiarato che è la guerra la grande presenza protagonista di questa edizione, e non gli si può dare torto. La guerra imperversava nelle sale del Lido, nella sua moltitudine di volti: quando non era conflitto militare era conflitto culturale, o sociale, o, naturalmente, tutte e tre le cose insieme. Certo è che di commedie se ne sono viste davvero poche. Se ridere è ancora un segno dei tempi, lo è per reazione, anticorpo tradizionale immancabile, però derubricato a meccanismo fisiologico di coda, che va bene per affrontare la questione degli attriti culturali allinterno della macro-classe borghesia (the Nanny diaries) o per testimoniare in un afflato di ipertrofica, autoironica megalomania la crisi creativa di un grande cineasta del nostro tempo (Glory to the filmaker!). Ma a fare da leader, cioè a segnare la rotta artistica, ci sono le bombe a grappolo in Libano (Sous les bombes), le violenze di un esercito, quello statunitense in Iraq, le quali malgrado le apparenze sono perfettamente sensate proprio perché nascono allinterno di un sistema psicologico fondato sul terrore e lincombenza, e la visione dellaltro come mera minaccia, potenziale e dunque di fatto (Redacted, In the Valley of Elah); la difficoltà di dire al mondo occidentale che malgrado le operazioni mediatiche e culturali di "ricopertinatura" non siamo capaci di ricadere negli stessi barbarici errori di sempre, e quando qualcuno provocatoriamente strappa la copertina lucida, sotto la plastica riaffiora il vecchio titolo: apartheid. Ieri in Sudafrica, oggi in Palestina (Man from Plains). La guerra come rottura di continuità, anche. Spaesamento, perdita di coordinate culturali come conseguenza di ibridazioni forzate, quando un modello di civiltà ne ingloba un altro mangiandolo e poi obbligandolo ad assimilare - in una sorta di digestione invertita- la propria fisiologia imperante (la Graine et le mulet); la guerra come sforzo titanico di non affondare nelle dinamiche del lavoro di un mondo globalizzato, sforzo nel quale conservare memoria della propria umanità e di quella altrui sembra sempre più un lusso impensabile (Its a free world ). La guerra è uno sfondo costante, un basso continuo, che emerge ogni volta che una spy story melodrammatica - o un melò condito di spionaggio - senta il bisogno di scendere da un piedistallo troppo astratto per diventare concrezione storica (Lust, caution). Ogni volta che una vicenda di colpa e redenzione e di amori ha bisogno della giusta spinta drammatica, per divenire lavventura di due cuori separati da un orrore che, pur nascendo tra le mura di una villa, si riflette nel mondo circostante trovando la sua tragica consacrazione (Espiazione). Il western In questa cornice di conflittualità universale è particolarmente interessante notare come anche il cinema più ricreativo e divertente (nel senso etimologico di proposta di un detour fuori dal dovere di testimonianza e di accusa percepito da chi il cinema lo fa) spesso non dismette le armi, ma infilandole in un cinturone piega le canne delle pistole ad un fine decisamente più leggero e disimpegnato: è il genere western, che si rivela decisamente vitale, malgrado letà veneranda, proprio perché smette di essere un genere in quanto tale. La struttura iconica e stilistica del cinema di cowboy è ormai libera di vuotarsi dei suoi contenuti primordiali per farsi il vero Proteo del cinema contemporaneo, e a Venezia questo dato di fatto è apparso molto chiaramente. Se è vero infatti che da un lato si celebrava nelle sale più dessai una folta, filologica (e un po fanatica, giustamente) retrospettiva dello spaghetti western, ripescando dalla soffitta memorabilia di Nando Cicero, Riccardo Freda e Mario Bava (sic) ma anche, parallelamente alla frontiera nostrana, Butt Boetticher e John Ford; daltro canto le avanguardie cinematografiche si sfidavano nelle sale più ampie esplorando le possibilità di questo tipo di linguaggio visivo per tuttaltri sentieri, selvaggi e non. Così Dominik scombinava le carte ancora una volta dopo Eastwood regalandoci una versione inedita e apostatica delleroe con le pistole (The Assassination of Jesse James by the coward Robert Ford), giocando con i ruoli e le figure e inventando una tensione elegantemente narrata e visivamente potente tra eroe e antieroe, tra un epos a cui vengono sottratte tutte le prerogative della mitologia classica e un etos liminale e debole, in cui ci si deve sforzare per assegnare i coefficienti di moralità e immoralità dei vecchi tempi. Ma cè anche chi, con maggiore spensieratezza, fa piazza pulita delle maschere tradizionali e non ne usa neppure una (Searchers 2.0), inventando un meta-western radicale e sgangherato in cui i personaggi incarnati sono mere impalcature, e i veri protagonisti sono le citazioni torrenziali, minuziose e ossessionanti di tutta la cinematografia classica, innescando un movimento narrativo sempre più orientato al paradosso. Oppure chi le usa tutte, le maschere, tutte insieme, facendole esplodere sullo schermo, mischiandole come mischia i colori forti del rosso e del bianco (Sukiyaki western Django) delle uniformi delle due bande avversarie, in un Arizona che è anche il Giappone medievale storico, inventando una genitura nipponica per il nostro Django e una serie di scontri survoltati con katana, colt e mitragliatrici gatling. Estremi, virtuosi, così pieni di strizzate docchio da sembrare alla fine quasi un tic, benché spassoso. La sperimentazione Si è sperimentato, questanno, nelle sale del Lido? Rispondere sembrerebbe facile, stando a quanto appena detto. La risposta è in effetti positiva, ma meno scontata del previsto. Qui entrano in gioco per un attimo le considerazioni sulle premiazioni, ma, sia ribadito, svincolate da qualsiasi polemica o schermaglia criticista. Forse i trofei non vanno giudicati o biasimati, forse lunica cosa che si può fare è prenderne atto dando loro quella funzione di indicatori che dovrebbero effettivamente avere. Molte pellicole denotano lurgenza di aggiornare il mezzo tecnologico, in unimpennata sempre più lucida e focalizzata di inseguimento dei nuovi media, quelli che accompagnano la nostra vita fuori dalla sala buia e ci portano il mondo a disposizione, o per meglio dire lo producono a nostro beneficio. Se anche il cinema vuole continuare a produrre per noi una sua realtà (anche se senza la subdola velleità di produrre la realtà), allora deve restare al passo con le modalità percettive più up-to-date: il reality show, il web con le sue ultime filiazioni (Youtube, la blogosfera), i personal media (videocellulari, handycam) e tutte le interazioni tra questi possibili. Così, per riprendere unespressione di Gianni Canova, prosegue loperazione di svuotamento del fuori campo cominciata con lhorror moderno e trova un nuovo senso quando a finire dentro il quadro non è più soltanto il "mostro" ma il mezzo cinematografico stesso, chiamato sempre più spesso a far parte delluniverso diegetico con la plausibile scusa del reality show: loperatore è attore (oltre che co-regista) e personaggio, e lobiettivo, risucchiato nella storia, corre e ansima e trema, goffo ed erratico, e pena per la propria sopravvivenza di fronte al dispiegarsi di un orrore insopportabile e meraviglioso che lo ghermisce; e noi con lui ([REC]). Il mezzo che salta dentro il campo è una quasi-costante: è lhandycam di un ragazzino che filma il linciaggio di un emarginato intrufolatosi in un ghetto per ricchi (la Zona); è il Nokia del giovane soldato che perde la sua coscienza in Iraq, testimoniandolo con una fotografia enigmatica e una ripresa scabra, rovinata al limite dellinguardabile, ciononostante narrativamente fondamentale (In the valley of Elah). È, ancora, la quasi impossibilità di distinguere tra materiale di repertorio giornalistico e fiction (Sous les bombes) perché le due architetture del mostrare ormai si imitano vicendevolmente, e con tale perdita del discrimine (docu o fiction?) sono ormai molti i film che flirtano e giocano, per minare la resistenza sempre più forte alla immedesimazione e alla sospensione dellincredulità (per tornare al tema bellico, citiamo solo un titolo: September tapes, sconosciuto e interessante, comparso un anno fa nelle sale per qualche istante). Ed è, infine, la corale eterogeneità di mezzi che concorrono a comporre il quadro scheggiato e tagliente di una guerra che è identica a tutte le guerre (Redacted è in certo senso la versione mediaticamente up-to-date, appunto, di Vittime di guerra dello stesso De Palma) ma che proprio per questo non deve mai scivolare nel non più raccontabile; deve anzi appiccicarsi al nostro immaginifico in maniere sempre nuove, e fingendo la verità con strategie sempre più sottili e sinistre, perché non si corra il rischio di guardare uno stupro di guerra con un anestetizzante senso di déjà-vu. Laddove ci si sposti sul campo della narrazione forte, però, Venezia sembra mostrare coi suoi premi che esiste ancora una certa paura a fare con le storie ciò che con la tecnica espressiva ci si appresta ormai a fare con meno pregiudizi. Andare in cerca di genitori geneticamente forti (il romanzo) dimostra molto spesso questa paura, e rivela a cose fatte che passare dalla carta al telo bianco resta e resterà sempre un valico difficile e perfino contronatura; giustamente lo si riconosce escludendo dalla rosa dei leoni un film fuori bersaglio come Atonement: quello che per McEwan poteva senza dubbio essere un riuscito gioco di manipolazione dei pesi nella costruzione della sua storia, diventa in mano a Wright un oggetto di cui è difficile calibrare equilibri interni, risultando in una pellicola dal baricentro troppo decentrato tanto per struttura che per dinamiche dei personaggi. Daltro canto il Leone dOro ad Ang Lee (Lust, caution) appare confermare da diversa angolatura questa nostra sensazione: a conti fatti un regista potrebbe guardare le assegnazioni e decidere che se vale la pena rischiare, meglio farlo sul piano formale, ché in qualche maniera gli eccessi di gioventù possono comunque venir premiati; fa fede lintenzione, fa fede come una storia semplice e minima arriva dentro il cuore della platea grazie alla potenza delle interpretazioni, poco importano i tempi insopportabilmente lunghi (è il caso de la Graine et le mulet). Ma rischiare raccontando una storia sceneggiata sovversivamente, senza appoggiarsi alla letteratura ma anzi andando contro codici narrativi fortemente sedimentati, e esplorare nuove tematiche, non sempre può pagare. Meglio rileggere il vecchio cinema, alzando il tasso di voyeurismo erotico (un erotismo laccato e torbido al contempo) e paludando il tutto con una fotografia sontuosa e una calligrafia intinta in un lustro nero di china. Sembra strano, eppure due anni prima lo stesso Lee aveva fatto molto di più e molto meglio, facendo vibrare sullo schermo lamore più maledetto e scandaloso di tutti (ancora cowboys ) ma raccontandolo in maniera visivamente casta. Non sempre si ha voglia di sperimentare, evidentemente, benchè la sete di solleticare pubblico e giurie possa restare costante. In coda a questa carovana multiforme resta il cinema italiano (Nessuna qualità agli eroi, lOra di punta, la Ragazza del lago, il Dolce e lamaro, ad esempio), che forse dovrebbe interrogarsi sul perché continua a tenersi fondamentalmente distante da ogni tipo di variazione, tanto sul piano dellespressione formale che dal punto di vista dei temi trattati, puntando in maniera un po miope solo sulla pretesa di unautorialità astratta e scollata dal mondo. Aggiudicarsi i premi non è mai stato il punto della questione; piuttosto il punto potrebbe essere interrogarsi sul perché non se ne vince nessuno. |