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Cinema asiatico a Venezia 64

Una visione trasversale

Primo Piano di Anna Maria Pelella



^ Glory to the Filmmaker!, di Takeshi Kitano

Quest’anno la presenza asiatica alla Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia è stata nutrita e piuttosto soddisfacente. Ovvio che l’apertura con il Glory to the Filmmaker! (Kantoku Banzai!) di Kitano non può che essere un omaggio alla carriera più che notevole del grande regista. E seppure certa critica, che per la verità non aveva apprezzato molto neanche la precedente pellicola di Kitano Takeshis’, appare poco propensa a concedere attenzione ad una variazione in senso autoreferenziale delle altrove apprezzatissime prove del nostro, a mio avviso siamo di fronte ad un vezzo divertente e creativo di un regista che si è già abbondantemente guadagnato il suo posto nella storia del cinema, e che adesso vuole solo divertire e divertirsi. Riuscendoci pure più che bene, dal momento che Glory to the Filmmaker! come pure era stato Takeshis', è un divertentissimo film sul cinema, che prende in giro senza tregua registi affermati (ho detto Tarantino?) e generi, i quali vengono esplorati al meglio e senza sbavature nei piccoli esempi o suggerimenti che egli insinua all’interno delle riuscitissime rappresentazioni scenografiche. La trovata del momento è un ulteriore doppio, un pupazzo questa volta che rappresenta ancora il regista, ma meno seriamente di quanto si possa dire dei precedenti utilizzi da parte del nostro di doppi e consimili. La presunta crisi del regista Takeshi è ridicolizzata nelle performances dell’attore Beat Takeshi, che senza soluzione di continuità ci porta a spasso nel surreale e che “appena ci sono difficoltà diventa un pupazzo” così semplicemente giocando uno dopo l’altro tutti i ruoli che gli vengono in mente, e che il pubblico gli chiede. Nessuna sorpresa quindi se la sceneggiatura è un coacervo di immagini dal sapore teatrale - è dal teatro che Kitano viene ed è là che vuole tornare - portandoci tutti con lui in un delirio visivo condito con le immagini più belle dell’ultimo cinema autoriale. Kitano rimane grande anche quando non ci regala più le dure rappresentazioni di Hana-bi, premiato appunto a Venezia, o la magnifica poesia di Sonatine, per il quale più di un critico continua a manifestare nostalgia. Grande perchè capace di rappresentazioni avvolgenti in un cinema che viene rinnovato così dall’interno, e che regala momenti talmente unici da richiedere nuove categorie.

E’ poi la volta di Lust, caution (Se, Jie) di Ang Lee appassionata storia d’amore tra un Tony Leung, politico più che convincente, e la bellissima Tang Wei spia che lo amava e che per questo si mette nei guai, nella Shanghai agli albori della seconda guerra mondiale. Il plot per la verità non originalissimo è tratto da una storia di Eileen Chang, ed è con la sottile sensualità, già abbondantemente premiata in i Segreti di Brokeback Mountain, che Ang Lee ci accompagna in questa storia delicata e ben fotografata. I due protagonisti sono nella parte in maniera coinvolgente sin dall’inizio del racconto e anche se non siamo di fronte al capolavoro, è pur vero che Ang Lee sa come avvincere lo spettatore. Oltretutto in presenza di una così totale passione mostrata esplicitamente non si può che identificarsi o per lo meno capire le motivazioni che, sole dietro la storia rendono vitali i personaggi. Tony Leung è il simbolo delle contraddizioni che complicano la vita in presenza di ideali spesso in contrasto con la necessità di sopravvivere ad essi. Egli è il male e nel contempo la cura, nella situazione in cui si trova la povera Wong Chia Chi solo l’amore può sottrarla ad una cospirazione in cui sempre per amore si era fatta coinvolgere. Che sia proprio tutto questo amore il problema? Ang Lee non ce lo dice, ci mostra invece il sottile coinvolgimento della ingenua idealista, dapprima risucchiata in un patriottismo in odore di manipolazione e poi stremata da una passione che vince ogni resistenza e abbatte tutti i suoi labili tentativi di mantenere il controllo della situazione. La fotografia e la colonna sonora impeccabili completano un quadro perfetto dal punto di vista stilistico, anche se molti spettatori in sala alla fine sono risultati sfiniti dalla durata del film e dell’amplesso già famoso prima ancora che la proiezione fosse terminata.
Leone d’oro a mio parere del tutto meritato, dal momento che se davvero i critici che si oppongono all’invasione asiatica e chiedono a gran voce un’innovazione, smettessero di cercarla in film italiani di bassa qualità, avrebbero minore resistenza a vedere il nuovo che viene dall’Asia e che da anni bussa alla nostra porta.

Sad Vacation di Aoyama Shinji, apre la sezione Orizzonti della 64 edizione della Mostra. Già autore di quell’Eureka che si fece notare anni fa, e di quel Eli, Eli, lema sabachthani? visto a Cannes nel 2005, Aoyama Shinji ci racconta con la consueta poesia la storia di Kenji, interpretato da Tadanobu Asano, che abbandonato dalla madre vive una vita di stenti. Un giorno gli sembra di riconoscerla nella compagna di Mamiya, uomo con cui intreccia un’amicizia, ed il legame tra i due permetterà a Kenji di confrontarsi col passato e riflettere sul significato dei legami di sangue. Triste e nel contempo doloroso, il film offre più di uno spunto di riflessione circa il ruolo della madre nella vita di ciascuno e sul significato del concetto di libertà nei rapporti familiari, e la recitazione solitamente punto forte del regista insieme alla fotografia curatissima, rendono avvincente questa ennesima storia di dolore e di vite ai margini. Da segnalare lo stile peculiare di narrazione del regista, che non tutti in sala hanno trovato agevole da seguire, dal momento che usando ritmi interiori e pertanto lentissimi e dialoghi dalla complessità stratificata, Aoyama Shinji rende fascinosa ma estenuante la rappresentazione, senza per questo annoiare in nessun caso, spesso anzi catturando lo spettatore che accetterà di seguirlo in questa lunga esplorazione dell’animo umano.

With the Girl of Black Soil (Geomen Tangyi Sonyeo Oi) di Jeon Soo-il ha vinto il Premio Cinema d'Essai CICAE. Si tratta di un omaggio/denuncia delle condizioni di vita dei minatori in Corea, e del racconto della chiusura delle miniere e la fine delle possibilità di sostentamento per molte famiglie. Girato con una visione impietosa e quanto mai realistica, il film si svolge nell’universo dei poveri di una nazione che, tendendo ad un’economia di matrice capitalista, sfrutta e deprime non poco il suo popolo. Il protagonista, un padre solo che alleva due figli, una bambina già vecchia ed un portatore di handicap che egli rifiuta di mettere in un istituto specializzato, è dolorosamente attuale, e non pochi usciranno dalla sala col senso di stritolamento che avvolge il destino di quei vivissimi personaggi.

Useless (Wuyong) di Jia Zhangke che torna a Venezia, dopo aver inconsapevolmente creato scompiglio e causato più di una figuraccia tra i critici accreditati che l’anno scorso, come candidamente affermato dalla Aspesi avevano bigiato Still life in blocco, salvo correre poi a vederlo per poterne parlare dopo la premiazione. Quest’anno ci porta un lavoro molto ben congegnato che racconta del tentativo di uscire dalla serialità del suo paese, che da anni copia e produce in serie come nessuno mai. Usando a pretesto l’atelier della stilista Ma Ke, che tenta un approccio al lavoro unico nel suo paese e progetta gli abiti con l’intento di rendere unico ogni pezzo, con lavori eseguiti a mano, stoffe disegnate appositamente e tutto l’apparato che esalta la creatività cinese al meglio della sua espressione, Jia Zhangke ci porta in un universo in cui le piccole botteghe stanno per sparire risucchiate dalla globalizzazione. E ci racconta l’insieme delle situazioni che sono dietro le contraddizioni di un paese che ha una storia antica e trasformazioni epocali in atto, da interno ad una società per lo più sconosciuta agli occidentali, il regista mostra semplicemente il passaggio dalla manodopera spersonalizzata alla creatività espressa con sistemi capitalisti, appresi nell’esercizio di anni al servizio degli altri. Ed è di contraddizioni che parla questo film, con modi poetici o semplicemente didascalici, racconta della stilista famosa, che ha imparato copiando per altri, e della piccola bottega che ripara i vestiti dei minatori. La Cina è molto più di tutta la somma delle sue contraddizioni, forse questo è il momento di conoscerla meglio, in maniere diverse dalla propaganda pro-olimpiadi e dai racconti approvati dal governo, e questo film può fornire l’occasione. Gli è stato giustamente assegnato il Premio Orizzonti per il documentario, a testimonianza del fatto che il riconoscimento dell’anno scorso, seppure dato in barba alle resistenze dei vecchi critici, non è stato un caso.

The Sun Also Rises (Taiang Zhaochang Shengqi) di Jiang Wen, già attore per il maestro Zhang Yimou, è un racconto composto da diverse ambientazioni, prima in un villaggio Yunnan, poi in un campus universitario e ancora nel deserto del Gobi, che conta tra gli attori Jaycee Chan figlio della star internazionale Jackie Chan, visto di recente in quel piccolo gioiello che è Invisible Target di Benny Chan. Si tratta di un’opera dal taglio onirico e dalla recitazione minimale che collega bene tra loro ambientazioni diverse e differenti visioni del mondo ed il cui ultimo episodio motiverà in parte l’intero racconto. Il linguaggio onirico usato dal regista crea più di una suggestione e inventa da capo il periodo della rivoluzione culturale, coniugando il racconto tradizionale con contaminazioni cinematografiche dal sapore europeo. Ovvio che appartenendo alla generazione successiva egli non ne parli in maniera realistica, ma forse in qualche punto esagera un pochino, creando confusione sugli intenti di un racconto che mescola il prima della rivoluzione col dopo ed i suoi risultati. Le immagini si susseguono veloci raccontando di una madre e delle sue scarpe scomparse, di suo figlio e del padre che non si sa dove sia, e poi di un campus universitario dove il regista stesso recita in un caos originato da un maniaco dalle molte mani e un numero di signore con rispettivi fondoschiena a disposizione. Il tutto ha un’aria da farsa, che potrebbe essere un modo diverso di parlare dei campi di rieducazione maoista, ma che rischia anche da una parte l’etichetta di superficialità e dall’altra quella di mancato rispetto per chi in quei campi c’è stato davvero.

Help me Eros (Bangbang Wo Aishen) di Kang-sheng Lee è una storia corale di personaggi dall’alienazione evidente e dal destino piuttosto triste. L'attore feticcio di Tsai Ming-liang, alla sua seconda opera, ci porta prima di tutto in una cucina, dove forse non vorremmo andare, e che comunque non dimenticheremo, poi ci mostra la vita di Ah Jie, interpretato da lui, che fuma quantità impressionanti di erba auto prodotta e si intriga per una voce sexy del telefono amico, che vorrebbe invitare a cena e che si immagina chissà quanto bella. Freddo ma non con l’intento modaiolo di certo ultimo cinema asiatico, si tratta comunque di un film dai toni realistici che racconta senza troppe illusioni la solitudine e l’alienazione di un’intera generazione. Girato con luci e fotografia molto accurate, merita senz’altro una visione, anche se forse non lascerà sensazioni piacevoli nello spettatore.

The Most Distant Course (Zui Yaoyuan de Juli) di Lin Jingjie è un meritatissimo Premio della Settimana Internazionale della Critica. La storia è una citazione da film nel film in cui Xiaotang, fonico su un set cinematografico, viene licenziato e si mette a raccogliere e registrare suoni da inviare per posta alla sua fidanzata, che però non abita più lì. Le cassette vengono recapitate ad una spaesata Xiao Yun che ha appena rotto con un uomo sposato e ascolta rapita le registrazioni. La costruzione della sottile atmosfera che si viene a creare tra questi due estranei è la parte più rarefatta dell’intero film, primo lungometraggio fiction del regista e assai imbevuto di citazioni cinefile. Le immagini sono didascaliche ed efficaci, nel loro raccontare il vissuto della maggiore distanza possibile da un dolore, che è quotidiano ed ineludibile, se non addirittura amplificato dalla fuga. L’uso dei suoni è un’altra citazione, così come il manifesto di un Bertolucci in camera del fonico. L’insieme sa di omaggio minimale e nel contempo ben filmato al film autoriale, da quel grande imitatore che a volte sa essere il cinema di Taiwan.

Blood Brothers di Alexi Tan (Tiantang Kou) è invece una storia dura, ambientata nella Cina degli anni trenta. Negli intenti del regista doveva essere una pellicola ispirata a Bullet in the Head, in realtà seppure leggermente derivativa, dal momento che la sceneggiatura deve non poco anche a Cotton Club e pure un pochino a Il Padrino, si tratta comunque di un’opera interessante.
Il regista eccelle nelle rappresentazioni didascaliche, e regala più di un riferimento a John Woo per quelle d’azione. Il plot è nero, nella tradizione asiatica delle storie di corruzione di sogni e persone a causa di altre persone che hanno il potere di scrivere i destini di chi gli si affida. I tre protagonisti, due fratelli ed un loro amico vanno a Shanghai a cercare fortuna e là troveranno un ambiente ostile che li risucchierà, asservendoli alle sue regole. Il boss nelle cui mani finiscono per cadere e che per causa loro perderà la vita, è solo un aspetto del problema, altro è il senso di cercare cose dove non ci sono e lasciare indietro quelle che si erano trovate. I tre finiranno uno contro l’altro per stupidità ed idealismo, ma sopratutto per la mancata chiarezza circa gli obiettivi che ciascuno dei tre persegue nella propria vita. La fotografia è pulita e le scene in esterno sono molto suggestive. Il finale deve molto al cinema action dell’ultimo decennio, ma non per questo è meno bello. Peccato che il regista si accontenti di citare e non osi un pò di più, appare comunque chiaro che sa come girare un film, spiace solo che non ne sia consapevole.

Beyond the Years (Chun nyun hack) di Im Kwon Taek, regista dedito alla celebrazione del rispetto per la tradizione coreana e conosciuto da noi per Ebbro di Donne e Pittura (Chihwaseon) e per Chunhyang, è una poetica storia di canto pansori e beghe familiari. I due protagonisti sono allevati insieme da un cantante girovago e quando si innamorano la storia scivola nel melò triste su due vite votate l’una all’amore per la sorella e l’altra a quello per la canzone tradizionale coreana. Centesimo film della vasta produzione di questo regista che si è dedicato al racconto delle tradizioni e delle contraddizioni del suo paese, si tratta di un lavoro molto evocativo che, come sempre nel regista coreano, racconta storie poetiche sullo sfondo di un paese complesso e poco conosciuto, a volte con modi inquietantemente nazionalisti.

Mad Detective (Shentan) di Johnnie To e Wai Ka-Fai, rappresenta invece un’innovazione nello stile del famoso regista di Hong Kong, anche rispetto alle precedenti opere realizzate con il collega Wai Ka-Fai, che sono solitamente le più particolari tra le opere dei due.
Film a sorpresa della 64 Mostra, con gran rabbia dei critici mummificati, Aspesi in testa, che ci fanno sapere di non apprezzare la virata asiatica di Müller, questo poliziesco dai tratti psicotici deve un pochino all’idea di base del Nigthmare Detective di Tsukamoto. Solo che qui non abbiamo la classe inquietante del regista giapponese a sostenete la narrazione, ma alcune trovate senz’altro interessanti che però hanno la grana grossa dei lavori made in Hong Kong. Il detective che vede i demoni è un interessante personaggio, come lo sono i demoni stessi, anche se la narrazione si fa grossolana e le trovate sono annacquate dal tentativo non del tutto riuscito di coniugare l’introspezione con il racconto poliziesco. Il finale pirotecnico e molto meglio girato del resto, è il riscatto finale di un’opera che segna un punto a favore della tendenza ad elevarsi per uscire dal solito clichè di regista action tout court.

Sukiyaki Western Django è l’ennesima prova del fatto che Miike Takashi se vuole può girare qualsiasi cosa. Non pare neanche lo stesso regista che ha filmato con poesia una storia gay ambientata in un penitenziario, nel più puro stile Jean Genet in A Big Bang Love: Juvenile. Forse pare di più quello che ha scandalizzato con Ichi the Killer, di sicuro è quello che ha reso al meglio le ossessioni simbiotiche di persone filmate nel peggio della loro degenerazione in Audition. Ma adesso che restituisce il favore all’amico Tarantino, che gli aveva procurato un cameo in Hostel del collega Eli Roth filmandolo in questo demenziale omaggio al western, ci si chiarisce bene il tipo di legame che ha con il regista americano. Sono entrambi fuori di testa, geniali e molto spiritosi. Non si prendono mai sul serio, neanche se è per questo prendono sul serio quello che raccontano, l’unica cosa che gli interessa davvero è la passione filmica, entrambi girano con amore anche le sceneggiature più alimentari, e se Tarantino ha dovuto chiedere ad amici e colleghi i primi soldi per girare Le Iene, Miike ha girato un mare di film nella logica del mercato del V-cinema, film a basso costo destinati al mercato home video. Tutto questo per arrivare dove sono adesso, due registi di culto, ciascuno con il suo grosso seguito di ammiratori ed estimatori pronti a giurare sulla qualità del loro operato, anche quando non è proprio di qualità quello che i due decidono di mettere in scena. Ma poco importa, entrambi sanno manovrare più che bene la mdp e tutti e due hanno modi nuovi di raccontare cose pure vecchie, ma che nelle loro mani diventano di sicuro interessanti.
Omaggio al film Django, western storico di Sergio Corbucci, questo nuovo delirio western di Miike racconta dei combattimenti di due gruppi rivali, i due clan Taira (Heike) e Minamoto (Genji) durante la sanguinosa guerra Genpei, punto di confine tra l'età classica e il medioevo giapponese. Arricchito di elementi demenziali questo plot si avvale dell’insostituibile recitazione (si fa per dire) di Tarantino nella parte di uno spietato bandito che soccorre gli abitanti della cittadina. Nel prologo veste i panni di Piringo, un cowboy col poncho che assaggia un sukiyaki, e poi si mostra ultracentenario in carrozzella, assai più stropicciato del Kurt Russel che ha filmato in Death Proof.
I costumi e le scene sono molto epici, il girato un pò meno, secondo me influenzato dall’idea di citazione che pervade l’intera operazione. Miike sa come saturare l’immagine, da anni usa la violenza come strumento di denuncia, se con risultati non sempre eccelsi, sicuramente con risvolti notevoli. Direi che si tratta della versione divertente, e soprattutto per le masse del suo epico Izo, (presentato all'interno della 61 edizione della Mostra di Venezia) opera assai notevole sui ritorni del male, che cambia faccia ma non muore.

Tutto sommato direi quest’anno la selezione asiatica è stata più che soddisfacente, grazie soprattutto all’interesse di Müller per l’apporto di un cinema ancora poco conosciuto da noi, soprattutto a causa della resistenza al cambiamento dei più vecchi tra i critici, che continuano a negare il valore di opere altrove già sdoganate e di sicura efficacia dal punto di vista dell’innovazione. Concludo queste note augurandomi il veloce pensionamento di critici obsoleti, a vantaggio di nuove leve desiderose di scoprire il nuovo, molto più che di celebrare i vecchi fasti di un cinema bisognoso di nuova linfa e nuovi occhi.