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Ecco come dovrebbe essere un film
antimilitarista. Non scagliarsi retoricamente contro un sistema prima di tutto ideologico come quello militare senza conoscerne le regole e le strutture mentali portanti. Constatare invece come questo stesso sistema, applicato alla situazione odierna delle forze militari americane, impegnate in missioni di pace fasulle come una moneta da tre dollari - Iraq in questo caso -, porta ad un vuoto di valori e di appigli psicologici che degenera in violenza ed irrazionalità. A Venezia ha provato a raccontarcelo Brian De Palma col forse sopravvalutato Redacted, e di sicuro Paul Haggis con questo bellissimo Nella valle di Elah, opera dallanima dolorosa proprie perché tanto più sincera nel suo essere, più che un atto daccusa, una richiesta appassionata daiuto nei confronti di chi sta perdendo il contato con la realtà, o almeno quella realtà soggettiva filtrata da un codice etico e morale come quello che veniva fornito dalladdestramento militare (a prescindere dal fatto che ci si possa trovare in sintonia o meno con tali precetti). Dopo aver ottenuto un successo sicuramente immeritato con lesordio registico di Crash, Paul Haggis dimostra una notevole intelligenza cinematografica nel rivolgere il suo occhio ed il suo gusto verso il nume tutelare sotto la cui ala ha trovato la notorietà e quindi lindipendenza, e cioè Clint Eastwood. Nella valle di Elah è un lungometraggio che deve molto, se non tutto, alla lezione di stile classica di questo sempiterno autore, e ne fa propri non solo gli stilemi più propriamente estetici, ma il cuore dolente e non conciliato di chi racconta unepoca ormai passata. Già, perché anche in questo nuovo film di Haggis il protagonista in fondo è un fantasma, un uomo che ha visto tramontare il proprio mondo e lordine che lo reggeva, e si trova di fronte alla prova più schiacciante di questo crollo, la morte del figlio che proprio di lui aveva v deciso di seguire le orme. La ricerca della verità sulla morte del ragazzo costringerà il protagonista Hank Deerfield a smarrire pezzo per pezzo tutto il puzzle che componeva le sue certezze, fino ad arrivare ad unammissione di debolezza (non di sconfitta) che porta con tragica coerenza d una delle scene finali più commoventi degli ultimi anni. Dopo averci lasciato piuttosto perplessi vista la stima non sempre motivata che si era guadagnato con il suo esordio dietro la macchina da presa, stavolta elogio ed ammirazione senza riserve per Paul Haggis, che ha costruito con semplicità un melodramma lineare ed accuratissimo nella gestione del ritmo e del pathos. Tutto in questo lavoro sembra muoversi per sottrazione: dalla regia minimale alla fotografia del sempre immenso Roger Deakins; dalla sceneggiatura perfettamente calibrata alle interpretazioni dei protagonisti, su cui svetta un Tommy Lee Jones che si merita ormai lo status di attore con la A maiuscola (altra figura sulle cui capacità ci siamo totalmente ricreduti, e non a partire da questultima interpretazione ): se è vero che la parte era stata scritta per Eastwood e che questi ha rifiutato, la scelta di Jones forse ha addirittura impreziosito il prodotto finale. Nella valle di Elah finirà verosimilmente per essere considerato uno dei migliori lungometraggi della stagione, e speriamo non solo dalla redazione dai collaboratori di Off-screen. Difficilmente si riesce ad incontrare una pellicola che riesce a coniugare con tali risultati lucidità dellelaborazione e sincerità del discorso. Limportanza specifica del film di Haggis, va ricordato ancora una volta, non si trova poi nel suo essere unopera di denuncia quanto unattestazione drammatica di stallo, di impasse del sistema, e conseguentemente una richiesta daiuto. Semplicemente commovente. |