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^ 10 Items or Less,
di Brad Silberling Eccoci giunti alledizione dargento del glorioso Torino Film Fest, salita alla ribalta delle cronache molto prima del dovuto grazie alla travagliata nomina a direttore artistico di una star come Nanni Moretti. Il cineasta romano raccoglie leredità di Roberto Turigliatto e Giulia DAgnolo Vallan - che a loro volta avvicendavano Steve Della Casa -, responsabili delle precedenti quattro annate, e consegna allesigente pubblico della kermesse torinese unedizione inconsueta rispetto a quello che era diventato lo standard dei passati anni. Scompare così, ad esempio, la sezione Americana - ne parlavamo nel resoconto al Fest dello scorso anno - con le sue interessanti incursioni nel panorama indipendente di marca USA, e conseguentemente fanno la loro entrata in scena delle vetrine alternative: è il caso della sezione denominata Lo stato delle cose, dedicata di volta in volta ad un focus di competenza specifico - si inizia questanno proprio con il cinema, visto come universo immaginario per interpretare la contemporaneità -, o di quella detta La zona, curata da Massimo Causo, punta sperimentale dellofferta festivaliera, dedicata ai lavori di medio e lungo metraggio che non troverebbero spazio nei canali istituzionali. Dal punto di vista delle personali, da sempre fiore allocchiello della manifestazione grazie alla qualità mai meno che egregia dellofferta, la mano del neodirettore si fa particolarmente sentire; capita così che la scelta delle personalità da celebrare cada su due autori assoluti della cinematografia mondiale quali John Cassavetes e Wim Wenders, indovinando in tal modo una doppietta che più omogenea non si potrebbe. Fatto anomalo, questo, per la politica della kermesse, che aveva da anni abituato i suoi affezionati ad un fecondo dualismo retrospettivo: accadeva così che le precedenti direzioni affiancassero ad autori come Chabrol, Gianikian/Ricci Lucchi, Bressane, Straub/Huillet, altri quali Carpenter, Romero, Hill, Friedkin, Aldrich, in un continuo incontro/scontro tra cinema dautore e mestiere - passateci lavventurosa classificazione - dai risultati imprevedibili. Del resto, ad unanalisi appena più attenta, la selezione in questione si rivela consona alla direzione artistica di Moretti soprattutto (e giustamente) dal punto di vista della pratica del cinema: infatti, sia lautore tedesco che quello americano rappresentano al meglio lindipendenza del filmaker, vista in contrapposizione allo strapotere di logiche produttive e commerciali di marca hollywoodiana; luno nel Vecchio Continente, teatro della nascita e dello sviluppo del cinema di poesia contemporaneo inteso letteralmente, nellaccezione primaria di espressione della propria Weltanschauung - laltro negli Stati Uniti, bacino di sviluppo dellindustria ma anche di una fertilissima avanguardia di segno uguale e contrario, Wenders e Cassavetes hanno tracciato il solco di un modo di praticare la settima arte sempre svincolato da sovrastrutture che ne soffocassero limpeto personale e lafflato poetico. Al punto da riuscire a piegare, alla fine, la stessa industria alle loro inalienabili esigenze artistiche. Proprio come Nanni Moretti, anchegli simbolo di quella stessa autarchia del cinema che lo condurrà lungo il percorso registico che ben conosciamo, e nel quale è chiaramente rintracciabile la lezione dei maestri celebrati dalle retrospettive del suo festival. Unedizione, quella appena conclusasi, che si è vista beneficiare della guida del cineasta romano in modo oggettivamente massiccio: incassi incrementati del 70 percento, accrediti triplicati, code veneziane anche per proiezioni sulla carta meno allettanti (ma tutto ampiamente nei margini di una macchina organizzativa ben oliata). Del resto, che ci fosse stato uno scarto netto in termini di visibilità - cercata ed ottenuta - è stato subito chiaro a tutti i presenti nel capoluogo piemontese: se durante le passate edizioni si poteva arrivare fino allombra della Mole e continuare ad ignorare la presenza della manifestazione, questanno, tra le numerose (e utilissime) navette in circolazione e le onnipresenti insegne, latmosfera festivaliera si espandeva fin sopra le colline che circondano la città. Entrando nel merito dellofferta filmica, appare evidente limportanza attribuita dallorganizzazione alla sezione Anteprime. Tra i sette titoli proposti sono almeno quattro ad essere fortemente degni di menzione: in particolare, e considerando il fatto che non siamo riusciti ad ammirare lattesissimo nuovo lavoro di Cronenberg, collocato strategicamente in coda alla rassegna, siamo rimasti favorevolmente colpiti dalla piccolissima cosa presentata da Brad Silberling, 10 Items or Less, divertimento di ottanta minuti scarsi voluto e prodotto dal grande Morgan Freeman, e dal bizzarro e geniale Irina Palm di Sam Garbarski, interpretato dalla mitica Marianne Faithfull. Rimane, ultimo del poker che abbiamo citato in questa sede, il controverso e forse non del tutto riuscito My Blueberry Nights di Wong kar-wai, opera dai contributi tecnici e artistici assolutamente deccezione - su tutti la luce di Khondji, la chitarra di Ry Cooder e la voce di Cat Power - che non riescono mai ad amalgamarsi in un insieme omogeneo, rimanendo invece confinati allo statuto di virtuosistici assolo (vale anche per le interpretazioni); ma a distanza di giorni, inaspettatamente, il film staziona ancora dentro ai nostri occhi. Ne riparleremo. Sempre tra gli spazi freschi di introduzione, particolarmente felice si è rivelata la sezione denominata Lamore degli inizi, allinterno della quale si sono voluti riproporre - in copie 35mm davvero magnifiche - alcuni dei grandi esordi italiani a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, presentati dagli stessi autori: questanno (perché tutto lascia pensare ad una riconferma futura dello spazio) è stata la volta dei primi film di Brass, Vancini, De Bosio, Rosi, Taviani, in un trionfo di quel cinema dimpegno civile tipico della temperie culturale dellepoca. Stupefacente la massiccia risposta del pubblico - del resto è stato così per tutte le proposte dessai del Fest - sempre più freddo invece nei confronti del Concorso (lungometraggi e short), seguito perlopiù solo dagli addetti ai lavori. A vincere la competizione (e i 25.000 euro del premio) è stato il convincente Garage, di Lenny Abrahamson, piccola e poetica opera irlandese, ma noi siamo rimasti molto colpiti anche da Away from her, esordio dietro la macchina da presa della brava Sarah Polley - patrocinato da Atom Egoyan e col quale condivide il medesimo, struggente universo cinematografico -, e dal solito esempio di estro coreano, questa volta quello di Heung-sik Park con the Railroad. Chiudiamo la nostra riflessione su questo convincente esordio morettiano esprimendo la gioia provata nellammirare per la prima volta, in splendide copie, alcuni rari cut integrali di capolavori del passato. Qui era già successo, per dirne solo un paio e citare un regista che amiamo, con i maledetti, introvabili e bellissimi il Salario della paura e Cruising di Bill Friedkin; questanno è stato la volta di John Cassavetes, con lAssassinio di un allibratore cinese (1976-78), ammirato per la prima volta nella versione definitiva di 135 minuti - in luogo degli 85 cui siamo abituati dalle magre versioni italiane - e con Mariti (1970), da noi ancora mai distribuito in Dvd, e del quale circolano solo antidiluviane versioni Vhs riportanti la durata di 95 minuti; ebbene, la sfavillante pellicola proiettata a Torino durava tre quarti dora in più. Che bello. |