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Torino Film Festival 25 - 2007

Sacher Revolution
Primo Piano di Piero D’Ascanio

Exodus e the Railroad



^ 10 Items or Less, di Brad Silberling

Eccoci giunti all’edizione “d’argento” del glorioso Torino Film Fest, salita alla ribalta delle cronache molto prima del dovuto grazie alla travagliata nomina a direttore artistico di una “star” come Nanni Moretti. Il cineasta romano raccoglie l’eredità di Roberto Turigliatto e Giulia D’Agnolo Vallan - che a loro volta avvicendavano Steve Della Casa -, responsabili delle precedenti quattro annate, e consegna all’esigente pubblico della kermesse torinese un’edizione inconsueta rispetto a quello che era diventato lo standard dei passati anni. Scompare così, ad esempio, la sezione “Americana” - ne parlavamo nel resoconto al Fest dello scorso anno - con le sue interessanti incursioni nel panorama indipendente di marca USA, e conseguentemente fanno la loro entrata in scena delle vetrine alternative: è il caso della sezione denominata “Lo stato delle cose”, dedicata di volta in volta ad un focus di competenza specifico - si inizia quest’anno proprio con il cinema, visto come universo immaginario per interpretare la contemporaneità -, o di quella detta “La zona”, curata da Massimo Causo, punta sperimentale dell’offerta festivaliera, dedicata ai lavori di medio e lungo metraggio che non troverebbero spazio nei canali istituzionali. Dal punto di vista delle “personali”, da sempre fiore all’occhiello della manifestazione grazie alla qualità mai meno che egregia dell’offerta, la mano del neodirettore si fa particolarmente sentire; capita così che la scelta delle personalità da celebrare cada su due autori “assoluti” della cinematografia mondiale quali John Cassavetes e Wim Wenders, indovinando in tal modo una doppietta che più omogenea non si potrebbe. Fatto anomalo, questo, per la politica della kermesse, che aveva da anni abituato i suoi affezionati ad un fecondo “dualismo” retrospettivo: accadeva così che le precedenti direzioni affiancassero ad autori come Chabrol, Gianikian/Ricci Lucchi, Bressane, Straub/Huillet, altri quali Carpenter, Romero, Hill, Friedkin, Aldrich, in un continuo incontro/scontro tra cinema “d’autore” e mestiere - passateci l’avventurosa classificazione - dai risultati imprevedibili. Del resto, ad un’analisi appena più attenta, la selezione in questione si rivela consona alla direzione artistica di Moretti soprattutto (e giustamente) dal punto di vista della pratica del cinema: infatti, sia l’autore tedesco che quello americano rappresentano al meglio l’indipendenza del filmaker, vista in contrapposizione allo strapotere di logiche produttive e commerciali di marca hollywoodiana; l’uno nel Vecchio Continente, teatro della nascita e dello sviluppo del cinema di poesia contemporaneo – inteso letteralmente, nell’accezione primaria di espressione della propria “Weltanschauung” - l’altro negli Stati Uniti, bacino di sviluppo dell’industria ma anche di una fertilissima avanguardia di segno uguale e contrario, Wenders e Cassavetes hanno tracciato il solco di un modo di praticare la settima arte sempre svincolato da sovrastrutture che ne soffocassero l’impeto personale e l’afflato poetico. Al punto da riuscire a piegare, alla fine, la stessa industria alle loro inalienabili esigenze artistiche. Proprio come Nanni Moretti, anch’egli simbolo di quella stessa “autarchia” del cinema che lo condurrà lungo il percorso registico che ben conosciamo, e nel quale è chiaramente rintracciabile la lezione dei maestri celebrati dalle retrospettive del suo festival.
Un’edizione, quella appena conclusasi, che si è vista beneficiare della guida del cineasta romano in modo oggettivamente massiccio: incassi incrementati del 70 percento, accrediti triplicati, code “veneziane” anche per proiezioni sulla carta meno allettanti (ma tutto ampiamente nei margini di una macchina organizzativa ben oliata). Del resto, che ci fosse stato uno scarto netto in termini di visibilità - cercata ed ottenuta - è stato subito chiaro a tutti i presenti nel capoluogo piemontese: se durante le passate edizioni si poteva arrivare fino all’ombra della Mole e continuare ad ignorare la presenza della manifestazione, quest’anno, tra le numerose (e utilissime) navette in circolazione e le onnipresenti insegne, l’atmosfera festivaliera si espandeva fin sopra le colline che circondano la città.
Entrando nel merito dell’offerta filmica, appare evidente l’importanza attribuita dall’organizzazione alla sezione “Anteprime”. Tra i sette titoli proposti sono almeno quattro ad essere fortemente degni di menzione: in particolare, e considerando il fatto che non siamo riusciti ad ammirare l’attesissimo nuovo lavoro di Cronenberg, collocato strategicamente in coda alla rassegna, siamo rimasti favorevolmente colpiti dalla piccolissima “cosa” presentata da Brad Silberling, 10 Items or Less, divertimento di ottanta minuti scarsi voluto e prodotto dal grande Morgan Freeman, e dal bizzarro e geniale Irina Palm di Sam Garbarski, interpretato dalla mitica Marianne Faithfull. Rimane, ultimo del poker che abbiamo citato in questa sede, il controverso e forse non del tutto riuscito My Blueberry Nights di Wong kar-wai, opera dai contributi tecnici e artistici assolutamente d’eccezione - su tutti la luce di Khondji, la chitarra di Ry Cooder e la voce di Cat Power - che non riescono mai ad amalgamarsi in un insieme omogeneo, rimanendo invece confinati allo statuto di virtuosistici “assolo” (vale anche per le interpretazioni); ma a distanza di giorni, inaspettatamente, il film staziona ancora dentro ai nostri occhi. Ne riparleremo.
Sempre tra gli spazi freschi di introduzione, particolarmente felice si è rivelata la sezione denominata “L’amore degli inizi”, all’interno della quale si sono voluti riproporre - in copie 35mm davvero magnifiche - alcuni dei grandi esordi italiani a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, presentati dagli stessi autori: quest’anno (perché tutto lascia pensare ad una riconferma futura dello spazio) è stata la volta dei primi film di Brass, Vancini, De Bosio, Rosi, Taviani, in un trionfo di quel cinema d’impegno civile tipico della temperie culturale dell’epoca. Stupefacente la massiccia risposta del pubblico - del resto è stato così per tutte le proposte “d’essai” del Fest - sempre più freddo invece nei confronti del Concorso (lungometraggi e “short”), seguito perlopiù solo dagli addetti ai lavori. A vincere la competizione (e i 25.000 euro del premio) è stato il convincente Garage, di Lenny Abrahamson, piccola e poetica opera irlandese, ma noi siamo rimasti molto colpiti anche da Away from her, esordio dietro la macchina da presa della brava Sarah Polley - patrocinato da Atom Egoyan e col quale condivide il medesimo, struggente universo cinematografico -, e dal solito esempio di estro coreano, questa volta quello di Heung-sik Park con the Railroad.
Chiudiamo la nostra riflessione su questo convincente esordio morettiano esprimendo la gioia provata nell’ammirare per la prima volta, in splendide copie, alcuni rari “cut” integrali di capolavori del passato. Qui era già successo, per dirne solo un paio e citare un regista che amiamo, con i maledetti, introvabili e bellissimi il Salario della paura e Cruising di Bill Friedkin; quest’anno è stato la volta di John Cassavetes, con l’Assassinio di un allibratore cinese (1976-78), ammirato per la prima volta nella versione definitiva di 135 minuti - in luogo degli 85 cui siamo abituati dalle magre versioni italiane - e con Mariti (1970), da noi ancora mai distribuito in Dvd, e del quale circolano solo antidiluviane versioni Vhs riportanti la durata di 95 minuti; ebbene, la sfavillante pellicola proiettata a Torino durava tre quarti d’ora in più. Che bello.