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Ottobre 2007

Brevi
backtrack di Giuliano Tomassacci




 
Highscores

Hairspray
Marc Shaiman, Scott Wittman, Decca Records
A dimostrazione ulteriore di quanto Adam Shankman la sappia lunga in fatto di musical sia prova il suo affidarsi alle cure di Marc Shaiman per la colonna sonora di Hairspray – tacendo della scelta di un cast più che indovinato e di una regia calibratissima. Tra le voci più eclettiche dell’attuale panorama hollywoodiano, il musicista caro a Rob Reiner si conferma brillante intenditore del genere, rielaborando per la versione cinematografia del musical che lui stesso ricavò dall’originale film di John Waters un repertorio canoro davvero duro a morire. Una disinvolta ribalta di verniciature rockabilly, funky-soul, jazz e Broadway-style che incontrano con successo le occorrenze del pop contemporaneo, ribadendo anche in partitura quel passaggio di consegne tra tradizione e teen-musical già ravvisabile su schermo. Duettano così la neo-star Nikki Blonsky e il totem John Travolta (in “Welcome To The 60’s”) mentre l’idolo di "High School Musical" Zac Efron proclama il suo amore per la protagonista (“Without Love”) e la malefica Michelle Pfeiffer di Grease 2 trama per riavvicinarlo alla snella figlia, tentando di corrompere uno sprovveduto Christopher Walken (“Big, Blonde & Beautiful – Reprise”) – chiamato esso stesso a sciogliere l’ugola in coppia con la moglie Travolta (“You’re Timeless To Me”). E il carnet di esibizioni, su cui la Blonsky domina per numero di interventi e talento, include prestazioni di Queen Latifah, Elijah Kelley e Amanda Bynes.
Shaiman, anche paroliere insieme a Scott Wittman, corrobora il materiale con melodie accattivanti e una cura dell’arrangiamento sempre ideale, dove non mancano i congeniti fremiti latino-americani che fanno dell’acidula versione pfeifferiana di “(The Legend Of) Miss Baltimore Crabs” un ponte esclusivo con le due gemme orchestrali concepite dal compositore per il dittico cinematografico de la Famiglia Addams.
La proclamazione del soundtrack a Disco d’Oro esalta un assioma: con il musical, almeno in ambito discografico, è difficile sbagliare. Ma l’estrema longevità d’ascolto di quest’album (già prevista un’edizione speciale nei prossimi mesi) gli garantiscono un punto in più nella classifica del rinato genere da palcoscenico.

The Wind and the Lion
Jerry Goldsmith, Intrada
A tre anni dalla morte, nonostante l’interesse delle più impegnate etichette di settore, Jerry Goldsmith non ha ancora goduto dell’attenzione discografica che ci si aspettava. Anche considerando l’ampiezza attuale del catalogo attuale, il bilancio delle pubblicazioni postume pare ancora indegno. Un segnale importante arriva dall’Intrada di Douglass Fake, che assesta un bel colpo con una riedizione a due dischi del classico Il vento e il leone, diretto da John Milius prima di stringere la vigorosa alleanza artistica con l’altrettanto compianto Basil Poledouris. In più di due ore di musica (divisa tra album originale e materiali inediti, per un ascolto integrale dello score) si ripresenta in tutta la sua monumentalità uno degli affreschi sinfonici del musicista losangelino, punto di convergenza, nel 1975, della sua miglior narrativa orchestrale, di un pathos romantico unico e di un afflato esotico seminale (da lui stesso promosso a standard fino al lavoro inutilizzato per Timeline di Donner, ultimo score vergato prima della scomparsa). Da annoverare di diritto sulla cuspide del miglior decennio cinematografico goldsmithiano, forse il più rappresentativo di un genio in seguito disilluso e provato dalle costringenti meccaniche hollywoodiane. Un’opera irrinunciabile.


On Screen

All’insegna della franchezza d’approccio e della spigliatezza del trattamento orchestrale che lo avevano già distinto in gli Incredibili, Micheal Giacchino torna a collaborare con Brad Bird e la Disney/Pixar sbrigliando un nuova, convincente partitura per Ratatouille. Terreno d’azione i francesismi jazz (che pare essersi imposto come dogma musicale per i roditori cinematografici) e la chanson più gustosa, espletata con debito lustro in “Le Festin”, su voce glassata di Camille. Ma è ancora una promozione con riserva, perché di nuovo il talentuoso musicista tradisce la mancata definizione di una personalità esclusiva, finora rintracciabile soltanto in "Lost". Forse l’accoglienza in altri frangenti narrativi aiuterebbe – anche se all’orizzonte si profila un’ulteriore rivisitazione, quella trekkiana dell’amico J.J.Abrams.

Lo score di un’Impresa da Dio (Varèse Sarabande/Audioglobe) impone due constatazioni: il duttile John Debney sembra destinato al mainstream di genere nonostante le elevate aspirazioni del suo commento per la Passione gibsoniana (un precedente tuttora isolato) e resta scelta preferenziale per plot “divini”. Il tono beffardo con sprazzi elfmaniani della precedente una Settimana da Dio struttura nuovamente il contributo, ma qui fa la differenza un respiro lirico culminante nel tema dell’Arca, in equilibrio tra misticismo a là Miklós Rózsa, miglior epica horneriana e una ricorrente propensione per la poetica silvestriana.

Fa a meno di Debney, invece, Robert Rodriguez, dividendo stavolta per Planet Terror l’ormai istituzionale lavoro autonomo sulle musiche con il solo mestiere di Graeme Revell. Tra omaggi allo scoring di serie B da fantascienza anni’50 e intavolature carpenteriane emerge un lavoro vintage (anch’esso edito da Varèse) in grande aderenza con l’immaginario del progetto Grindhouse, su cui si insinua anche la voce dell’eroina Rose McGowan (interprete di “You Belong To Me”, “Useless Talent #32”, “Two Against The World”). Non demorde, inoltre, il ‘killer sax’ già innervante le cupe atmosfere urbane di Sin City, a suo agio nelle connivenze elettroacustiche del soundtrack.

Ed inequivocabilmente elettroacustiche sono anche gli ambienti musicali concepiti da Theo Teardo per il suo nuovo confronto con la materia cinematografica in la Ragazza del lago di Andrea Molaioli – ma diametralmente opposte alle bizzarrie rodrigueziane. Si riconferma infatti, dopo L’amico di famiglia, la propensione del musicista ad una pratica sonora volta all’astrattismo narrativo, alla concretezza dell’elemento sonoro in partitura e al conseguente procedimento straniante congenito al radicalismo della manipolazione elettronica. Minimalismo e fissità dei soundscapes si autoalimentano; archi e synth partecipano ad un gioco di corrispondenze alternativamente conciliante e abrasivo. Tre dei 14 brani pubblicati da GDM fanno parte del precedente album dell’artista, Excellent Swimmer.


Off Screen

Dal nutrito catalogo della Digitmovies spuntano tre titoli che fotografano con precisione le passate scuole di scoring riservate a tre filoni dell’exploitation italiana, nonché il mestiere di altrettanti maestri del genere. Ennio Morricone, nel 1969, proponeva per il giallo Senza sapere niente di lei di Comencini uno dei suoi formulari più routinari, con tema portante in forma-valzer e sporadiche variazioni; senza dubbio un disco da completisti del compositore romano.


Altro registro invece per lo specialista horror Stelvio Cipriani, alle prese in un’Ombra nell’ombra (1979) con le direttive prog dell’allora vincente stile gobliniano (alle tastiere Claudio Simonetti). Una fragranza sonora risaputa ma non del tutto datata, grazie soprattutto ad un trattamento della palette percussiva particolarmente inventivo.



Vera gemma della terna è però il ragguardevole trattamento western di Carlo Rustichelli per Dio perdona… io no! Nel 1967, non nuovo alla declinazione italiana del sound di frontiera, il compositore carpigiano redigeva uno score di grande coscienza stilistica e caratura orchestrale (nonostante l’organico presumibilmente ridotto), conscio dei dettami morriconiani ma anche ricco di innesti personalissimi e aperture al rigoglio sinfonico di marca hollywoodiana. E, nonostante la presenza della coppia Bud Spencer/Terence Hill, ancora lontano dalla virata burlesca elaborata da Franco Micalizzi per la svolta decisamente comica del duo (Lo chiamavano Trinità).


25 fotogrammi

La serie fantascientifica "Babylon 5" resta tra le poche costanti della carriera audiovisiva dall’ex-Tangerine Dream Christopher Franke, in proprio nell’ambito della musica applicata dopo l’abbandono della formazione nel 1987. Fondatore indiscusso del suond della saga, il suo approccio votato al netto sincretismo tra padronanza elettronica e patina orchestrale ha caratterizzato un commento plastico e dilatato, evidentemente orientato alla lezione impostata da Dennis McCarthy e Jay Chattaway con "Star Trek: The Next Generation". Immutato nella forma, lo score di "The Lost Tales", proposto dalla Varèse in 28 estratti, affascinerà gli avvezzi al tratto del compositore berlinese tanto quanto deluderà gli irriducibili del trattamento science-fiction tipicamente descrittivo e sinfonicamente orientato.