|
The Passion,
USA, 2004
di Mel Gibson, con Jim Caveziel, Maia Morgenstein,
Monica Bellucci
Alla fine, dopo tre mesi (minimo) di lancio pubblicitario mimetizzato
da speculazione teologica e occupazione paramilitare di schermi, paginate
di quotidiano, siti e spazi audiovisivi assortiti, arriva La
Passione di Cristo, vale a dire la canea, il dibattito (vale
a dire il sanguinoso scambio di contumelie e già che siamo in
ambito religioso, le scomuniche e gli anatemi tra addetti ai lavori
i più disparati, con tanto di rinfaccio reciproco sull
ignoranza delle Sacre Scritture), la corsa a dire la propria, il bigottismo
critico nazionale pronto a scatenarsi in ogni rubrichetta di ciclostilato,
per un tema che richiederebbe ben altre (e alte) prese di posizione.
Sarà possibile salvarsi dal chiacchiericcio? No, non sarà
possibile e nemmeno questo piccolo spazio ne sarà immune (per
quel che riguarda chi scrive), quindi il massimo che sarà possibile
ottenere in questa recensione sarà limitare il terreno di elucubrazione
al film, senza lasciarsi prendere più di tanto dalle altre implicazioni
socioeconomicobioesistenzialiteosofiche. Quel che si è notato
in questi giorni, infatti, è che la maggior parte delle critiche
in Italia si concentrano non tanto sulla pellicola in sé, quanto
sulla liceità stessa delloperazione di Mel Gibson. Uno
dei cardini irrinunciabili e condivisi di tutta la condizione culturale
occidentale, riletto nelle forme del kolossal ad alto budget, diretto
da una star dal tono registico muscolare a dir poco e con laspetto
di operazione commerciale dalto bordo. Ed ecco i contrasti, Dio
e mammona, religione e mercanti del Tempio, corpi straziati ed effetti
digitali, spiritualismo e fanatismo bushista. In realtà l
operazione sarebbe stata possibile se Gibson si fosse posto più
a fondo il problema delle implicazioni estetiche (quindi morali) che
il suo progetto si portava dietro, delle ambiguità presenti nonostante
le sue buone intenzioni. Non lo ha fatto, è andato giù
piatto con il suo sermone danaroso e il film è mancato completamente
nel suo versante concettuale. Siamo solo allo spettacolo industriale
confezionato senza rischi (lutilizzo di lingue sconosciute e morte
come il latino e l aramaico non può essere veramente un
ostacolo alla comprensione e alla partecipazione emotiva per un pubblico
planetario abituato alla recitazione hollywoodiana, alla gesticolazione
hollywoodiana, alla grammatica visiva hollywoodiana etc.), in cui il
tentativo di Gibson di dare respiro spirituale alle immagini peggiora
le cose. Non si pretendono qui le sconvolgenti meditazioni filosofiche
sulla fede di Dreyer o Rossellini, Bresson o Pasolini, che sono nate
in ambiti culturali e produttivi completamente diversi. Il cinema hollywoodiano
contemporaneo ha delle sue ben precise caratteristiche formali che gli
rendono difficile raggiungere levanescenza di immagine di Rossellini,
Bresson o magari Tarkovskij. Nondimeno registi come Scorsese, Schrader,
Coppola, Malick ,forse Boorman e Weir (fuori Hollywood, Arcand e Abel
Ferrara) sono riusciti a sfiorare con il loro cinema lo spazio del trascendente.
Gibson sbaglia il film non perché scelga la forma del kolossal,
ma perché toglie al kolossal stesso la salutare ambiguità
che sonnecchia in ogni pellicola hollywoodiana, soprattutto in quelle
dautore e che, nel suo caso, consentirebbe il passaggio dalla
predica fanatica alla contemplazione del mistero dellincarnazione
e della Resurrezione. Con il suo film lattore e regista australiano
non vuole far meditare, non vuole neanche insegnare a pregare, perché
questo porterebbe a riflettere su quanto possa essere ambigua, perfino
aggressiva, linvocazione a Dio. Gibson vuole solo convincere a
pregare (e a pagare il biglietto) e per ottenere ciò mostra la
Passione in tutta la sua crudeltà e così si deraglia nel
De Mille con più ferite. Ogni tortura inferta a Cristo è
usata come argomento retorico. Mutuando un termine dalla storia dellarte,
il suo è un film devozionale, che al massimo dimostra come nello
zelo devoto si possa nascondere perfino una violenza sadica nei confronti
dellicona divina invocata. Non mancano esempi di arte religiosa
che arrivano alleffetto truculento (non solo lesempio di
Caravaggio, basterebbe pensare allaltare di Isenheim di Grunewald
o al Cristo morto di Holbein), ma in questi casi la presenza del dettaglio
macabro è figlia di una meditazione rigorosissima sul rapporto
tra azione, rappresentazione e distanza oggettiva come motore della
contemplazione. Qui non solo il corpo martoriato è solamente
un argomento per spingere alla devozione, ma quello che dovrebbe essere
un film sulla umanità del Cristo uomo, Dio fatto carne diventa
la glorificazione di un immaginario superomistico. Cristo appare subito
come un eroe, anzi, come appena detto un supereroe, un eletto che non
ha molto a che spartire con quelli che lo circondano, anzi appare loro,
come unapparizione straordinaria che non lascia mai indifferenti.
Sconcerta il fatto che locchio registico di Gibson, tanto più
mostra la Passione di Cristo con le sue atrocità, quanto più
ne sottolinea la dimensione sovrumana, che non ci riguarda, se non come
beneficiari. Jim Caviezel compie prodigi, è virile nella sua
mansuetudine, mostra una resistenza incredibile come afferma
uno dei suoi aguzzini durante la fustigazione, tutte caratteristiche
che Gibson utilizza per allontanare il personaggio dagli altri protagonisti
del racconto evangelico. Non è la ricerca del Dio icona, ineffabile
anche nella sofferenza, lontano anche nel martirio, la cui apparenza
umana ne cela ulteriormente il mistero, anche perché il film
non lo inquadra così, anzi fa della sofferenza metafora, con
zoom, ralenti e dettagli esibiti in abbondanza. Non è nemmeno,
però, il verbo che si fa carne di S. Giovanni, un uomo che dal
suo stesso martirio insostenibile trae la sua straordinarietà
agli occhi di chi lo guarda, che si rivela proprio nel dolore cui si
sottopone, ma è un semidio, una potenza celeste in abito umano,
che si sottopone alla sua prova perché se lo può permettere,
una specie(paradosso) di Dio pagano, che appare agli uomini e poi torna
alla sua veste con assoluto agio, sempre tenendo presente la differenza
di qualità tra i due ambiti. Gibson si compiace della sofferenza
mostrata, ma la sua preghiera in pellicola non è una imitatio
christi, pure possibile per un attore i cui personaggi mostrano
una vena masochistica che, in filigrana, può diventare percorso
cristologico (si veda il William Fallace di Braveheart), anzi si ha
la sgradevole sensazione che sia piuttosto la figura di Cristo ad essere
adattata allimmagine superba e inimitabile che ha Gibson per leroe,
fosse anche leroe cristiano. Forse lessenza dello sbaglio
del regista si trova tutta nella primissima sequenza del film. Uno sguardo
dallalto dei cieli, sopra le nubi, che si tuffa a terra, a cercare
lEletto. Locchio registico si identifica con l occhio
divino (una intuizione lasciata pericolosamente a sé stessa).
Se è vero che Cristo nel film è sempre un feticcio guardato
(consumato) dagli occhi altrui, è anche vero che gli sguardi
dei personaggi sono sempre condizionati (creati) da questo occhio divino
che li costringe a riconoscere la natura fuori dallordinario del
suo figlio prediletto. Niente mistero (forse una semplice narrazione
spettacolare e convenzionale, senza ralenti e metafore sarebbe stata
più efficace nellevocare il mistero), tutto è chiaro
a Gibson e tutto deve essere spiegato con lesibizione (filologicamente
corretta) del Crocefisso. Nè Dio totalmente altro, né
Cristo fatto uomo, ma eroe cristiano. Interpretazione plausibile se
Gibson non lavesse imposta registicamente come Verità di
fede, storica, e cinematografica tutto insieme. Solo la seconda soggettiva
di Dio padre, che lacrima dallalto sulla Croce e provoca terremoti
(di per sé bella immagine sfruttata malissimo), mostra cosa avrebbe
potuto essere un film sulla trasparenza cristallina della parola di
Dio e sul rapporto trasparenza-opacità dello sguardo, come in
Pasolini dove era la stessa predicazione a scandire le luci e le ombre
dei volti ad illuminare, a dare la visione. Qui (e non è solo
colpa di Hollywood, intendiamoci), tutto è mostrato, manca la
visione.
|