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^ Elio Germano,
Isabella Ragonese, Paolo Virzì Questa stagione cinematografica ha visto uscire in America tutta una serie di pellicole che riflettono sulla storia presente e passata del loro paese, proponendo al pubblico questioni e problematiche per nulla scontate, né tanto meno tendenti ad una conciliazione tra la visione precisa dellopera e lo stato politico, ideologico e sociale che la nazione sta vivendo ed attraversando. Lungometraggi come la Guerra di Charlie Wilson di Mike Nichols o Nella valle di Elah di Paul Haggis, insieme al purtroppo inedito Redacted di Brian De Palma, tentano di sollevare il discorso dellinsana guerra americana in Medio Oriente, indagandone le cause a partire dalla Guerra Fredda, mostrandone leffetto alienante sulle classi sociali che più hanno subito gli esiti di questa politica: quelle più basse, a cui il governo e lesercito fanno sempre riferimento per procurarsi carne da macello. Altri film come lAssassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford riflettono invece sul rapporto tutto americano tra individuo singolo e proiezione collettiva, sulle contraddizioni e pericoli che si nascondono nella glorificazione del mito americano, traducibile nella figura sempre ambigua del self-made man. Anche il Petroliere getta una luce più che ambigua su questa figura, evidenziandone soprattutto listinto predatore e sanguinario. Molti altri esempi potrebbero essere portati riguardo al fatto che in questo periodo più che in passato la cinematografia hollywoodiana e più in generale statunitense sembra interrogarsi sullo stato dellAmerica, sul suo rapporto sia con la propria storia che con la determinazione democratica che essa sta cercando di allargare al resto del mondo. E in Italia cosa sta succedendo? Chi si occupa di raccontarci il nostro tempo, la fase che stiamo vivendo? A quanto pare, stando a come è stato accolto dalla critica e dal pubblico, questo arduo compito tocca a Paolo Virzì ed al suo Tutta la vita davanti, commedia che racconta della precarietà lavorativa - quindi economica, quindi sociale, quindi psicologica, quindi esistenziale - in cui vive la generazione che si sta affacciando in questi anni nel mondo del lavoro. Con tutto il rispetto per il regista livornese, la cosa non può che lasciarci sconcertati. Anzi deve lasciarci sconcertati. I punti in cui contestiamo il valore di denuncia che è stato affibbiato al film in questione, e che speriamo non fosse nelle intenzioni del regista accaparrarsi, sono principalmente due. Primo: se Virzì voleva davvero raccontare le difficoltà di una generazione alle prese con la precarietà del lavoro ormai non più garantito, perché ha scelto come protagonista una ragazza di 23 anni appena uscita dal mondo universitario, quando la fascia più colpita da questo disagio è senza dubbio unaltra? La generazione dei 30-35enni, quella cioè che sta maggiormente risentendo della fragilità dei nuovi contratti, non aveva ben più motivo di essere rappresentata da un film che si presuppone volesse dare una sferzata a questo sistema? Seconda questione, stavolta più puramente cinematografica: Virzì continua a voler - giustamente - fare i conti con la grande tradizione della commedia italiana, tanto da citarla esplicitamente in Tutta la vita davanti con un omaggio ad un capolavoro del genere, Ceravamo tanto amati di Ettore Scola. Oltre a questo, il cineasta continua a tentare di adoperare nelle sue pellicole più coraggiose un tono che molto si avvicina al grottesco, cifra estetica e contenutistica che rappresentava il momento più corrosivo e riuscito di quel periodo di cinema italiano. Ma propri Virzì non si è ancora accorto che per riuscire in questo intento bisogna costruire dei personaggi con cui non si può provare nessun tipo di empatia positiva, proprio perché hanno (avevano, ahinoi) la funzione di rappresentare il deviato, il marcio presente nella società italiana? Rimanendo proprio su Scola, o meglio su quello che Scola ha prodotto negli anni 70, basta tenere a mente i suoi personaggi di Brutti, sporchi e cattivi per capire perfettamente come lavorare con il grottesco. Lautore di Ovosodo continua invece a caratterizzare le sue figure con una condiscendenza che francamente inizia ad essere snervante, una specie di cerchiobottismo emotivo che alla fine non sembra servire a nulla, in quanto non permette di identificare nessuno come la falla del sistema, la rappresentazione della deviazione sociale, o più semplicisticamente come il nemico da combattere. Questo difetto di fondo è a nostro avviso presente in tutto il cinema di Virzì, che a questo punto sembra essere diventato vagamente ricattatorio in quanto continua a promettere un qualcosa che poi non mantiene mai, e noi spettatori continuiamo ad aspettare speranzosi che la prossima volta sarà veramente, sferzante, corrosivo, polemico. Io, dopo Tutta la vita davanti, ho sinceramente perso la speranza, amareggiato. Se questa è la capacita odierna di saper raccontare i problemi della nostra società e delle sue contraddizioni interne, stiamo davvero messi male. Forse è meglio, in un momento in cui il cinema italiano cala i suoi assi al botteghino con i vari Moccia, Brizzi, Muccino jr. o i cinepanettoni, fare finta di nulla ed aspettare inquietati un periodo in cui ci sta qualcosa di più, e di meglio, da raccontare. Insomma, se il prodotto medio adesso ha questa consistenza, cosa ci si può aspettare? In fondo, purtroppo, il cinema è davvero lo specchio del suo tempo. |