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Quando ha scritto e girato in totale
libertà creativa, avulsa da qualsiasi schematicità narrativa,
Paul Thomas Anderson ha realizzato almeno un paio di capolavori come
Magnolia e Ubriaco
damore. Con questo suo nuovo lungometraggio ha però
deciso di cambiare radicalmente rotta, appoggiandosi per la prima volta
ad un testo preesistente, il romanzo Oil! pubblicato da
Upton Sinclair nel 1927. Se chi ha letto il libro parla di una trasposizione
completamente libera della pagina stampata, rimane comunque il fatto
che Anderson stavolta si è confrontato con una storia molto più
lineare e compatta, incentrata totalmente sul protagonista Daniel Plainview
invece che su una moltitudine polifonica di figure. Ciò che ne
è venuto fuori è un tentativo molto coraggioso e potente
nella sua mera realizzazione filmica, ma non perfettamente concepito
sotto il profilo squisitamente drammaturgico. Volendo comunque inserire
nella storia situazioni e toni che virassero verso una visione più
cupa e grottesca della materia raccontata, il regista non riesce sempre
ad equilibrare con coerenza il doppio binario, finendo per assemblare
parti del film che tra loro non sembrano avere una precisa fusione.
Anche il doppio rapporto che Plainview ha con i suoi rivali, il figlio
adottivo ed il giovane predicatore invasato, appaiono strutturati secondo
delle direttive che poi non vengono seguite fino in fondo. Lenorme
ellisse temporale che ad esempio precede la parte finale crea un vistoso
sfasamento logico nel rapporto padre/figlio che non viene né
giustificato né tanto meno raccontato o anche suggerito. Ancora
più complesso e lo scontro con i predicatore Eli Sunday, figura
che rappresenta in maniera conclamata una sorta di alter-ego di Palinview,
un fanatismo rivolto invece che verso il denaro/petrolio verso la salvezza
dellanima. Questa contrapposizione, tutta giocata in filigrana
sulla similitudine tra i due deviati, perde fortemente di
mordente nella seconda parte del film, salvo poi riesplodere prepotentemente
in un odo che avrebbe dovuto essere calibrato con maggior cura. Se,
come sembra, Sunday altro non è se non una copia altrettanto
ipocrita di Plainview, con cui il protagonista deve per forza confrontarsi
per poter scivolare nel proprio inferno personale, allora la potenza
di questo doppio incastro avrebbe dovuto essere miscelata in altro modo.
Insomma, Anderson ha scritto una sceneggiatura con parecchia carne al
fuoco ed a conti fatti non ha saputo padroneggiare fino in fondo tute
le sfaccettature tematiche e psicologiche che ha proposto nel suo film. Va da sé comunque che il Petroliere per lunghi tratti propone momenti di cinema altissimo, poderoso, come ad esempio i primissimi minuti tutti raccontati in silenzio, attraverso soltanto la forza incandescente delle immagini ed il solito meticoloso lavoro sul sonoro che è presente in ogni film di Anderson. Anche se a dire il vero lo sperimentalismo sui suoni e le musiche dissonanti di Jonny Greenwood - membro dei Radiohead - non appaino anchessi, in alcuni momenti, troppo coerenti con la compattezza cercata nella messa in scena. Squilibrato ma a tratti devastante, poggiato interamente sulle spalle di un Daniel Day-Lewis titanico, il Petroliere è unopera dal coraggio e dallintensità molto sopra la media delle pellicole viste questanno. Pur con tutti i suoi difetti Paul Thomas Anderson ha costruito un affresco livido e pulsante, mostrando come lAmerica, la sua forza capitalista, è stata costruita da mostri per nulla indecisi quando, per arrivare al successo, al nero del petrolio si è dovuto mischiare anche il rosso del sangue. |