Quante probabilità ci sono
che un deputato texano, bonaccione, incline alle bisbocce e alle lotte
sociali, si dedichi con fervore e passione agli eventi che nel 1979
hanno contrapposto Afghanistan e Unione Sovietica? Una soltanto, come
uno solo era il deputato Charlie Wilson. Mike Nichols, premio Oscar per il Laureato, porta sul grande schermo la Guerra di Charlie Wilson, la storia di un uomo che fra i festini di Whashington, le votazioni al congresso e gli scandali privati, non solo ha trovato il tempo per interessarsi alla crisi afghana del ‘79, ma ha trovato anche il modo, i sostenitori e quindi i soldi (ben un miliardo di dollari) per risolverla, quella guerra, con la cacciata dei russi dai confini afghani. Al suo fianco, oltre le bellissime segretarie, Charlie Wilson (Tom Hanks) ha l’appoggio di Joanne Hering, la sesta donna più ricca del texas: bella, influente, fervente religiosa, passa per le braghe di Wilson e gli fa condurre la più grande campagna di recruitment politico mai vista a sostegno di una guerra esterna agli Stati Uniti. La fida Bonnie (Amy Adams) segue Wilson dappertutto, gli ricorda per chi votare, va con lui ai confini del Pakistan dove il deputato texano si scontra con una realtà umanitaria che, almeno apparentemente, muove il suo animo verso la drastica decisione di risolvere questo conflitto. La guerra in Afghanistan conivolgerà anche Gust Avrakotos (Philip Seymour Hoffman), un uomo pragmatico e determinato di origini greche, che svelerà a Charlie i vari gradi di paranoia che un agente della Cia può toccare e far toccare. Potere, sesso, politica, patriottismo: sono questi gli elementi che si agitano ne la Guerra di Charlie Wilson, in un affresco che mostra un’America che non ha più paura di raccontare com’è capace di fare grandi cose e di “incasinare i finali di partita”. Anche la scelta di Tom Hanks, un volto familiare per il pubblico di tutto il mondo, interprete anche di eroi atipici, vincibili come Forrest Gump, è una scelta densa di significato. Charlie Wilson non è un uomo infallibile, eppure ci mette il cuore in quello che fa, oltre ad una buona dose di forza, furbizia e divertimento. La cifra stilistica di Mike Nichols insieme con la sottile ironia che pervade i dialoghi scritti da Aaron Sorkin, raccontano un momento di storia americana, tenendo ben presenti anche le debolezze dei protagonisti. Ed è qui che si gioca una delle più importanti differenze fra il cinema italiano e quello americano: anche Signorinaeffe è una storia politica, eppure il sex appeal di la Guerra di Charlie Wilson non ha nulla di minimamente paragonabile rispetto al film di Wilma Labate. È un’altra storia, è vero, ma pur sempre una storia di conflitto, protesta e mani sporche. Eppure il modo di raccontare i meccanismi politici e la sceneggiatura che piega il sistema democratico alle necessità della vicenda in Charlie Wilson, riducono Signorinaeffe ad una recita parrocchiale. Le donne di Charlie sono sexy, intelligenti e potenti: una visione illuminata dello sceneggiatore e illuminante del regista, che sottolinea con sapienza tutti questi elementi. Le donne sono anche il veicolo d’informazione nel film: passano le agenzie, fanno telefonate, influenzano i media. Il che ci porta ad analizzare l’importanza che l’informazione assume nel film. Wilson legge le agenzie perché vuole sapere le cose di oggi, oggi. La velocità, la conoscenza e la verità manifesta si contrappongono alla sfera del segreto: gli atti che nascondono altri intenti, le lacrime di Charlie Wilson che nessuno vedrà, le parole mascherate per persuadere, arte in cui Joanne Herring è maestra. Julia Roberts, da vecchia volpe del cinema, riesce a dare alla miliardaria texana la giusta durezza e il necessario fascino per portare una donna al centro dei giochi di potere dell’America. Il visibile e il nascosto: una costante che rende la politica americana materia narrativa ricca di suggestioni. Colui che invece rimane quasi sempre nell’ombra giocando però un ruolo fondamentale nella partita, è Gust Avrakotos tratteggiato superbamente da Philip Seymour Hoffman. Fresco di candidatura per il Golden Globe con la Famiglia Savage e per il Premio Oscar (oltre che sempre per il Globe) con questa pellicola, Hoffman interpreta il grasso agente della Cia che risponde a tono ad ogni battuta scurrile, domanda tignosa, richiesta impossibile di Charlie Wilson. La vittoria dell’America, almeno nella cacciata dei russi, è merito di entrambi. “Noi arriviamo con i nostri ideali e cambiamo il mondo. E poi ce ne andiamo”. In questa frase pronunciata davvero da Charlie Wilson nel 1980, pochi mesi dopo la risoluzione del conflitto, è racchiusa tutta l’amarezza verso un grande paese, portatore di pace, di valori di democrazia, a cui a volte manca la concretezza. Il fatto che oggi finalmente gli scrittori e i cineasti americani riescano a parlare è il segno che forse i tempi potrebbero davvero cambiare. |