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Uno dei più lucidi - e disperati
- profeti del nostro presente, J. G. Ballard, che per congiuntura e
necessità pratica la scrittura di fantascienza, coniò
tempo fa il termine spazio interno per il nuovo terreno
che desiderava esplorare, intendendo per tale quel territorio
psicologico (manifesto, per esempio, nella pittura surrealista) nel
quale sincontrano, fondendosi, il mondo interiore dello spirito
e il mondo esteriore della realtà. Lo spazio interno
si delineava in contrapposizione esplicita allo spazio esterno, verso
cui si era lanciata tanta fantascienza degli anni doro, sia scritta
che girata, con le sue mirabolanti immagini non soltanto di viaggi interplanetari,
ma anche di mutamenti dei nostri rapporti sociopolitici; immagini, a
detta di Ballard, che appaiono ora a noi come enormi frammenti
di scenografie superate. Superate perché hanno esaurito
il loro compito di invenzione fantastica, che, conclude lo scrittore
britannico, essendo già data, il suo compito (dello
scrittore ndr) è linvenzione della realtà". Concordo con lui nel ritenere che da questo punto di vista è
2001: Odissea nello spazio il canto del cigno di questa
visione: perfetto spettacolo scientifico in costume trasformato in romanzo
storico alla rovescia, mondo conchiuso e impenetrabile alla
luce cruda della realtà contemporanea. Era il 1974.
Lo spazio esterno collassa su se stesso e perde di interesse, la fantascienza
come strumento di indagine e anticipazione del presente si rivolge ad
altro, e i pochi film che ancora si occupano di ciò che esiste
oltre lorbita terrestre hanno il solo pregio, nel migliore dei
casi, di offrirci azione o commedia a buon mercato, ma il loro potenziale
di sonda è spuntato o del tutto assente. Sunshine non sfugge a questo triste vaticinio, anzi, soccombe sotto il peso di una responsabilità additata dallautore di "Crash" proprio perché in una certa misura la avverte, ma non sa gestirla, né farsene carico. Lo spazio esterno si fa pura metafora e teatro di bellissime immagini psichedeliche - senza dubbio il pregio migliore del film - ma non contiene se non un pallido tentativo di spazio interno, abbozzato dalle due tematiche in continua e reciproca dialettica di rimando: il confronto con la nostra stella malata, origine di tutto, e lo sfaldamento dellequilibrio psicofisico dato dalla titanica responsabilità di doverla curare per salvare - letteralmente - luniverso. Danny Boyle e il suo fido scrittore Alex Garland (già insieme per the Beach e 28 giorni dopo devono essersi fatti romanticamente irretire da considerazioni documentaristiche di per sé intriganti, non cè dubbio, circa la longevità del sole, e, nel più puro spirito della science fiction daltri tempi, hanno generato una storia a partire dal meccanismo narrativo che gli anglosassoni chiamano what if: e se ? E se il sole non avesse davvero carburante per altri 5 miliardi di anni? Se si spegnesse tra una manciata di decenni? Certo bisognerebbe fare qualcosa per rimetterlo in moto, prima che tutto finisca. Fargli di nuovo il pieno, per così dire. Che succederebbe se una nave spaziale composta da unèquipe di superscienziati, i migliori della terra presumibilmente, dovessero trovarsi a fare i conti con il più antico dei nostri dèi, faccia a faccia con esso, più vicini dello stesso Icaro che dà il nome alla missione, e con linsopportabile peso del destino del mondo sulle spalle? Ecco: le conseguenze sulla psicologia e sulle dinamiche relazionali tra lequipaggio sarebbero il vero tema degno di interesse. Il resto, giusta, doverosa coreografia di contorno, bella e impressionante quanto vuoi, ma, per riprendere il concetto di cui sopra, esterna, appunto. Qui, però, arrivano i problemi. A partire dalle scelte di cast e dalla definizione dei rapporti del gruppo. Cillian Murphy non regge la funzione per lui pensata: è un androgino sofferente, delicato, tenuemente ambiguo, che magari convince nella parte di Scarecrow in Batman begins o nel ferito e smarrito protagonista di una Londra meravigliosamente deserta in 28 giorni dopo, ma risulta innaturale, restio a vestire i panni del miglior astrofisico della terra, non trasmette quellintangibile sensazione di forza intellettuale irradiante sicurezza che dovrebbe. Anche prima che comincino i problemi. Cliff Curtis è uno psicologo con la faccia da mujaheddin, curiosamente, il primo a manifestare bizzarri segni di instabilità al cospetto del dio sole, e le due donne dellequipaggio sembrano state inserite poco più che per motivi di bilanciamento dei sessi, data linconsistenza della loro presenza. Lunico in parte sembra Chris Evans, carattere a tutto tondo, squadrato come il suo taglio di capelli e - forse retaggio del suo alter ego nei Fantastici quattro - sempre pronto a infiammarsi, e perciò costantemente punito dal terribile freddo siderale e dai liquidi refrigeranti (ironico contrappasso, date le temperature incendiarie che premono sullastronave). La storia si dipana tra forti tensioni derivanti da imprevisti di rigore in un viaggio spaziale e conseguenti, delicatissime decisioni che sono destinate a mettere a repentaglio, di volta in volta, uno o tutti i membri della ciurma, dato che per lassoluta importanza dellesito della missione, il postulato di partenza non può non essere quello della sacrificabilità dellequipaggio stesso. Anche qui però i conti non tornano, perché i contrasti tra i personaggi sembrano non tenere debitamente conto proprio di questo postulato: si ragiona e si litiga in merito a questioni morali come se non fosse chiaro che se lIcarus II fallisce il suo compito, non ci sarà vecchiaia ad attendere nessuno nel sistema solare. Lo spettatore attento e intransigente pretenderebbe un training e una selezione dei componenti ad hoc per una missione del genere, verosimilmente preparati già di partenza a considerarsi una expendable crew, per citare Alien. Niente di tutto ciò. Inoltre i due punti di svolta fondamentali per il movimento della storia, uno situato nel primo atto, laltro allinizio del terzo, sono di una debolezza sconcertante, e questo dà tristemente lalfa e lomega della sceneggiatura. Un errore marchiano, una dimenticanza (sic) nella gestione dei calcoli di rotta da parte del matematico, e la comparsa del cattivo di turno, pretestuosa quanto sofisticata apparizione che, se da un lato cerca di ripescare in parte latmosfera di claustrofobica invasione tipica del già citato film di Ridley Scott, rivela subito una confusione esiziale proprio in merito allesigenza iniziale del film, e cioè mostrare (e non asserire) la degenerazione della psiche di fronte ad un impegno così soverchiante per lemotività umana. Ne risulta che tutto ciò che si può dire della minaccia che infesta la nave è che è la pazzia, punto. Il bisogno drammaturgico, la motivazione ad essere dellantagonista è labile e scarsamente comprensibile proprio perché poco esplorata: è poco esplorato proprio quellinterstizio della realtà che sta tra il dentro e il fuori di noi. Il mostro fa paura perché è orribile come è orribile Freddy Krueger: è psicopatico e orrendamente sfigurato dal calore, e vuole ammazzare tutti. Alla faccia dello spazio interno. Meno male che cerano tutte quelle immagini sul sole: cosmico, purulento, asfittico, e sempre letale. Quando il resto non funziona, per fortuna cè il senso del meraviglioso spazio che da millenni preme su di noi e ci incute timore con indecodificabili proporzioni, e Sunshine è in fondo questo e poco altro: un film spaziale. |