Cinema, film, recensioni, critica. Offscreen.it


la Leggenda di Beowulf
Beowulf, Usa, 2007
di Robert Zemeckis, con Ray Winstone, Anthony Hopkins, Crispin Glover, Robin Wright Penn, Angelina Jolie

Anomalie quadrimensionali
recensione di Giuliano Tomassacci



Ciclici ricorsi
Nella convinzione che il cinema di Robert Zemeckis abbia finora promosso a proprio cardine tematico il fattore tempo - nella sua totalità di accezioni significative e rappresentative, attraverso un’elaborazione sensibilmente palesante la sua irreversibilità vettoriale al di là delle pretese possibilità manipolatorie - è quantomai utile affrontare Beowulf evidenziandone anzitutto il suo ruolo in coerenza ad un quadro temporale definibile non solo dalle dinamiche testuali interne all’opera zemckisiana, ma anche dalla non trascurabile connotazione di una precisa frequenza filmografica. Se infatti è naturale parlare di corsi e ricorsi storici e di ciclicità narrativa tesa al rinnovamento guardando alle singole pellicole, è altrettanto possibile scandire il percorso artistico del regista usufruendo di un medesimo schema. Corsi e ricorsi strutturano essenzialmente le avventure scapestrate di All’inseguimento della pietra verde (dalla fantasia romanzesca alla romantica realtà), la trilogia di Ritorno al futuro così come le tappe vitali di Forrest Gump. La ciclicità degli eventi permette a Marty McFly di intercettare il fulmine che lo rimanderà al presente, a Gump di comprendere la vita, al naufrago di Cast Away di studiare i venti e guadagnare il rientro alla vita redenta.
Il primo ciclo nella filmografia del regista statunitense è ravvisabile a metà degli anni ’80, con All’inseguimento della pietra verde a demarcare uno sviluppo autoriale dopo i primi due lungometraggi, cui segue dal 1994 una terza maniera, conclusiva di un corso e compiutasi con Cast Away. Polar Express apre nel 2004 un nuovo ciclo, coincidendo peraltro con un rinnovamento estetico decisamente marcante un giro di boa che divide macroscopicamente l’asse produttivo in due frangenti ben distinti. È inoltre, a giudicare dai generi e dalle tematiche, l’avvio di un ricorso storico autoreferenziale. La pellicola natalizia in performance capture suggerisce un parallelismo non trascurabile con l’esordio del 1978, 1964: allarme a New York arrivano i Beatles, nella misura in cui entrambi i viaggi portano due scettici protagonisti a credere nei rispettivi miti generazionali. A tre anni di distanza, in Beowulf ricorre l’attrazione per il genere di maggior riscontro che stimolò nel 1984 All’inseguimento della pietra verde, variazione sul tema di Indiana Jones: il corrispettivo contemporaneo è il fantasy epico, che vede senza dubbio tra i principali riferimenti la saga de Il Signore degli Anelli del pupillo Peter Jackson.

L’anomalia della seconda tappa storiografica
Zemeckis sembra dunque proseguire nella revisione digitale del sua carriera saltando l’esilarante parentesi de La fantastica sfida (1980): il genere del momento potrebbe esaurirsi a breve e la tempestività s’impone d’obbligo. Illazioni a parte, il trend del nuovo (ri)corso al futuro rinforza con Beowulf anche la sensazione di uno spostamento d’approccio rispetto al tempo storico. All’intervento di rimaneggiamento animato dal gusto adulterante tipico dell’ucronia immaginifica che caratterizza le passate ambientazioni, la proposta favolistica tratta da Chris Van Allsburg di Polar Express e l’adattamento del più antico poema in lingua anglosassone di quest’ultima fatica sostituiscono una sorta di riscrittura storiografica dell’humus letterario-culturale americano in chiave elettronica.
Il confronto con Beowulf si presenta tutt’altro che agevole e la difficoltà di valutazione è proporzionale ai gradi di articolazione del testo. Zemeckis ha rispettato in pieno le intenzioni dichiarate a ridosso del primo, coloratissimo e fanciullesco esperimento con la tecnica del rendering digitale degli attori, promettendo una pellicola “nera e buia come l’inferno”. Il film licenziato è il più anomalo, ambiguo, efferato e crepuscolare che l’artista abbia finora concepito, un annullamento dei freni inibitori che in pochi forse si sarebbero aspettati dal più “populista” e moderato autore dell’entertainment hollywoodiano. Ancor meno poi nell’ambito di un filone dalla traguardazione di target così vasta ed eterogenea. Certo la sceneggiatura dell’inedita coppia Roger Avary e Neil Gaiman ha avuto la sua incidenza nella gestazione di una parabola schietta e tagliente, quasi eccessivamente intenta a dichiarare le sua valenza metaforica.
Il guerriero scandinavo Beowulf calca il suolo danese per sconfiggere la temuta e deforme creatura Grendel, succede al trono del Re Hrothgar (di nuovo la ciclicità dei ricorsi) dopo aver stretto un patto segreto con la vendicatrice madre della sua mostruosa vittima e infine perisce tra fama, vanagloria e dubbi sulla veridicità delle sue declamate gesta. La leggenda è in fin dei conti la summa degli archetipi mitologici, pregna di spunti morali e aperture filosofiche sul contrasto bene/male, l’antesignana di tutte le allegorie sulla zona d’ombra umana. Ed è ancor più incentivata in questo senso dalla stesura "apocrifa" redatta da Gaiman e Avary, che riempiono le lacune narrative della prosa originale, e particolarmente predisposta ai temi nodali del cinema zemeckisiano: il viaggio e il ritorno, la restaurazione dell’equilibrio, il doppio e la specularità, la ricerca della fede. Decisivo in questo frangente il motivo dell’orgoglio messo in discussione, sviluppatore della tematica forse centrale al film, nella sua valenza demistificatrice del superomismo, inveterato al contesto sociale attuale tanto quanto al rispettivo cinema. Agli indomiti gladiatori, agli spartani valorosamente votati al martirio, Zemeckis contrappone una figura conscia della sua fallibilità fino all’annichilimento autonomo, più che martire volontario una vittima prescelta di chi vuole crederlo al di sopra delle sue limitazioni umane.
Una dicotomia, quella della vuota apparenza e dell’inadeguatezza dell’essere reale, su cui insiste anche l’affascinante rappresentazione di Grendel (un ottimo Crispin Glover, che ritrova il regista dopo il freddo abbandono della trilogia di Ritorno al futuro a seguito di attriti produttivi): mastodontico e temibile prima di essere colpito al suo tallone d’Achille, rattrappito e inerme dopo la sconfitta. Non ultima, la problematica della tentazione verso l’immortalità - più volte emersa nella filmografia dell’autore - guadagna di nuovo un posto rilevante dopo l’esacerbazione grottesca de La morte ti fa bella, il lavoro che forse più collima con la filosofia sotterranea di Beowulf. Angelina Jolie tentatrice faustiana, come Isabella Rossellini, ma stavolta sopraffattrice e rivelatrice dell’anomalia sicuramente più interessante rispetto alla narrativa finora presentata dal regista: la disfatta ultima del protagonista, che a differenza del chirurgo plastico Ernest Menville/Bruce Willis dimostra debolezza e accetta di perire sotto il peso della sembianza posticcia. Il finale sintetizza il peso di un fardello inevitabile oltre a differire drasticamente dalle precedenti chiose dell’autore: non più un liberatorio punto di fuga verso l’esterno, ma un costringente primo piano in freeze-frame dall’ineluttabilità truffauttiana.
Parimenti anomala appare la dinamica di Beowulf, raro esempio di personaggio zemeckisiano il cui mandato è autoimposto e non conferito, suo malgrado, da una coincidenza di eventi all’interno dei quali viene a trovarsi investito di una missione. È qui che La fantastica sfida rientrerebbe dalla finestra, nella misura in cui l’ostinazione alla carriera politica di Rudy Russo/Kurt Russell fornirebbe il precedente di riferimento per un simile sbozzo di carattere (tra l’altro convalidata dalla comune sfrontatezza dei due personaggi), se non fosse per l’esclusivo processo di trasformazione in peggioramento del guerriero vichingo che dissipa l’affinità tra i due. Ancora, nella pluralità di narratori interni preposti all’avanzamento dell’azione il testo si distacca sensibilmente dal tipico regime di racconto a singolo punto di vista. Ipotizzando, per altro, un narratore titolare inattendibile.

Girare quadrimensionalmente
Nessuna divergenza invece, in ambito rappresentativo, dalla scrittura registica iperdinamica sfoderata in Polar Express - fatto abbastanza prevedibile, data l’oppurtunità offerta dalla ripresa nella scatola - battezzata “volume” - di organizzare combinazioni di découpage praticamente illimitate e di sovvertire alcune limitazioni di campo imposte dalla tradizionale fotografia live-action. Nonostante una maggior misura rispetto al precedente discorso filmico, l’entusiasmo di messa in quadro e il funambolismo del montaggio interno sanzionano ancora una volta come questa sia primariamente la causa scatenante di tanta tenacia verso lo sdoganamento della nuova frontiera digitale.
Al di là del totale controllo estetico, il digital enhanced live action è per Zemeckis l’espletarsi assoluto di necessità artistiche precise, culminanti nel dimensionamento di un profilmico concepito quadrimensionalmente (tempo incluso) in cui la propensione congenita ad un rapporto frontale con la quinta dello schermo trova sublimazione nel ricorso al 3D. Modalità di visione su cui il film è stato stavolta improntato sin dall’inizio e che molti recensori d’oltreoceano hanno già raccomandato ai fini di una corretta fruizione del lungometraggio. Purtroppo, l’impossibilità di usufruire di una tale versione obbliga ad una valutazione sicuramente parziale e incompleta. A farne maggiormente le spese potrebbero sostanzialmente essere due lunghe sequenze d’azione, sistemate nel primo e nel secondo atto del film. Queste appaiono, ad una visione bidimensionale, innocue e a tratti gratuite, nonché esagerate e fuori posto rispetto alla maturità contenutistica del film - ripresentando altresì la problematica di un ritorno anacronistico al modus narrativo degli anni ’80 che già zavorrava Polar Express.
L’iperrealismo del risultato favorisce comunque un’assoluta oggettività irreale, stimolante e coinvolgente, che però non può esimersi da latenti richiami metadiscorsivi al virtuosismo del linguaggio. Ma la vera mediazione di troppo è ancora nella resa degli interpreti scansionati. È qui che non tutte le promesse sono state mantenute. L’autocritica dello stesso cineasta all’effetto straniante dei movimenti oculari riscontrati nel film natalizio aveva alimentato le maggiori aspettative. In parte disattese, considerando che, nonostante le effettive migliorie apportate, il problema sussiste, ostacolando un naturale atteggiamento d’identificazione, già intralciato dall’istintivo confronto con le sembianze dell’attore responsabile della performance. Ed è indicativo come alla fine i personaggi meno ancorati fisicamente ai rispettivi referenti reali convincano maggiormente (Grendel e Beowulf su tutti), auspicando una prospettiva più favorevole all’insediamento del synthespian ibrido.

Il futuro (non) è scritto
L’elemento attoriale contribuisce insomma a tormentare strutturalmente un film tormentato già nelle sue tematiche. In questo, a dire il vero, risiede però buona parte del fascino perverso che la sanguigna avventura riesce a trasmettere in più di una occasione. Dall’impatto dunque non indifferente, pur con tutta la sua discutibilità, l’ultima opera di Zemeckis supera di una buona distanza Polar Express e convince, nell’epoca delle certezze e delle comodità cinematografiche, soprattutto nel mettere alla prova e sotto sforzo un medium comunicativo ancora lontano dalla fine del rodaggio. Che non potrà certo concludersi con lo sforzo di un solo fautore. Lasciano ben sperare a tal proposito le medesime ambizioni di James Cameron, Peter Jackson, George Lucas e Robert Rodriguez, che insieme al regista di Chi ha incastrato Roger Rabbit? hanno ufficializzato le loro intenzioni di rilancio del 3D in occasione dell’edizione 2005 dello ShoWest di Las Vegas. Quel che è certo è che Zemeckis proseguirà per la sua strada.
In quanto al prossimo ricorso, il progetto già annunciato, "A Christmas Carol" di Dickens, si colloca naturalmente dove nel 1985 si situò Ritorno al futuro. Di nuovo il viaggio nel tempo. Di nuovo attraverso un caposaldo letterario della tradizione anglosassone. Per di più con un cast in cui si rumoreggia la presenza di Michael J. Fox e Christopher Lloyd al fianco di Jim Carrey. Di nuovo in performance capture. Di nuovo un’occasione per verificare lo status quo di una rivoluzione: un faro che illumina il futuro o una candela che brucia dai due lati?