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Cast away
id., Usa, 2000
un film di Robert Zemeckis, con Tom Hanks, Paul Sanchez, Lari White, Leonid Citer, David Allen Brooks, musica di Alan Silvestri

Il rigore della solitudine
backtrack di Giuliano Tomassacci



Durante la seconda metà degli anni novanta, l’estetica di Robert Zemeckis ha saputo sciogliersi ed evolversi verso uno sguardo sempre più ampio, fluido e sobrio, mantenendo costantemente attiva l’interazione con i traguardi formali raggiunti e digeriti durante l’attivo decennio passato. Scrupolosissimo nella scelta dei progetti da abbordare, il regista ha palesato una coeva distensione artistico-professionale anche attraverso i costanti lassi di tempo intercorsi tra un’opera e l’altra, siglando quasi ciclicamente la media di un lungometraggio l’anno (media che recupera oggi la sua validità con The Polar Express, concepito a distanza di circa quattro anni dall’antecedente doppietta Le Verità Nascoste / Cast Away, realizzati pressoché simultaneamente per noti motivi di compensazione produttiva). A maggiori tempi di concettualizzazione hanno direttamente corrisposto fondamentali smaltimenti delle ritmate e serrate direttive di montaggio degli anni ’80. Il tutto in favore di una morbida linearità visiva, fortemente incentivata dall’avvicendamento verificatosi nel reparto fotografico, dove al primo tecnico collaboratore Dean Cundey è succeduto il ben più plastico Don Burgess (e questo proprio in occasione di Forrest Gump, senza dubbio lo snodo carrieristico più eclatante della filmografia zemeckisiana). Da sempre incline al découpage lungo (valgano su tutti il carrello a seguire l’entrata di Eddie Valiant nel bar del Club Inchiostro e Tempera di Chi ha incastrato Roger Rabbit? e le lente panoramiche descrittive poste ad incipit di numerose pellicole), il cineasta ha così fornito il giusto ridimensionamento anche al suo estro tecnico: se infatti potrebbe risultare difficile riconoscere sobrietà al discorso filmico del regista che poco meno di un decennio fa veniva considerato il whiz kid della camera, il suo rinnovato approccio cinematografico giustifica ancor più oggi la validità di tale nomina, vista la maggior libertà guadagnata nel finalizzare ulteriormente movimenti di macchina e montaggi interni.
Allo stesso modo, riesumando un luogo ormai comune indirizzato al regista, si potrà inoltre aggiungere che così come l’effetto speciale e il CGI in Zemeckis sono sempre risultati misurati e sottomessi ai bisogni del testo, l’esercizio cinematografico puro (fotografia e montaggio) va negli ultimi anni sempre più registrandosi al materiale umano scandagliato. Da qui l’ampiezza stilistica della recente opera, dove il personaggio è presentato ad un obiettivo più mobile, raccontato in continuità per meglio astrarne la complessità (ancora oggi, tutta la poetica del regista è probabilmente racchiusa nella sublime apertura di Contact - anche in questo caso relegata al piano sequenza): la predilezione per i tagli frontali e ravvicinati agli attori, già presagita nei forsennati dialoghi a due di Marty e Doc nella trilogia di Ritorno al futuro; l’insistenza nel precedere il personaggio (Ellie bambina che cerca di soccorrere il padre e poi, cresciuta, che sfila continuamente di fronte alla lente nella citata riduzione del romanzo di Sagan; Claire letteralmente tallonata nella sua ricerca del soprannaturale in Le verità nascoste).
La maturazione di tali cifre narrative si concretizza in Cast Away, probabilmente il più denso resoconto di questo frangente dell’arte zemeckisiana, così come denunciato anche dal reset tematico-stilistico svolto “per eccesso” in The Polar Express. La penultima pellicola dell’autore acquista valore anche nel confermare la preziosa valenza del lavoro svolto dal compositore Alan Silvestri. Anche lui rigenerato nel ‘94 dal confronto con l’adattamento del romanzo di Winston Groom, Silvestri dimostra di aver limato al meglio la sua sensibilità musicale e, soprattutto, di aver portato a termine una ricerca di complementarità con il fotografico dell’amico-regista veramente rimarchevole.

Rigore visivo
Nel raccontare l'epopea dell'ingegnere Chuck Noland, unico naufrago su di un’isola per quattro anni, Robert Zemeckis sviluppa la sua dodicesima regia procedendo per sottrazione e imbevendo la pellicola di un rigore narrativo congeniale, filmicamente proficuo al soggetto; quasi naturalistico ai fini del contenuto.
In primis, la scelta di filmare la prima parte del film, e cioè il Noland prima maniera, totalmente in movimento steadycam (escludendo l'iniziale campo lungo sul bivio) e il resto dell'intreccio, dal naufragio in poi, a cavalletto, stabilisce una simbologia tra codici e testo assolutamente istantanea quanto pregevole. All'interno di questo presupposto dinamico nei confronti del profilmico, si rintraccia una disciplina altrettanto redditizia nel découpage generale. In questo senso è bene valutare la scelta di sceneggiatura adottata: non corrispondere cioè le avventure del naufrago sull'isola con le reazioni e le ricerche operate da chi lo attende “dall'altra parte”. è la riconferma di Zemeckis come “regista del tempo” che non mostra il tempo: ancora una volta il viaggio umano è raccontato al presente, il flashback è precluso, ancor più il montaggio parallelo. Il fruitore vive allora l’intima metamorfosi di Noland regolato dal suo tempo reale, senza poter approfittare dell’illusione cinematografica che in altri ambiti avrebbe magari permesso continui scavalcamenti dei livelli narrativi. L’unico occhio al tempo altro può essere solo quello del personaggio: l’attimo di futuro vissuto da Einstein nel primo Ritorno al futuro raccontato da Doc all’attonito Marty; i ricordi sporcati dalla stilizzazione narrativa del protagonista in Forrest Gump; il salto nel vuoto della capsula spaziale di Contact rivisto al monitor da Ellie stessa; l’antefatto fedifrago che svela “le verità nascoste” ad una Claire che vede solo attraverso gli occhi di un’altra donna tradita; l’assopimento dell’amore per Chuck da parte di Kelly espresso dallo scolorimento dei ritratti della donna dipinti sulla pietra. Questo rifiuto di un ben più attraente montaggio alternato a favore della linearità, oltre a sottolineare il rigore di cui sopra detto e a favorire una preziosa empatia nei confronti del personaggio, permette al cineasta di meglio diluire in Cast Away i tempi di montaggio, contrapponendo un più didascalico e intimista (quasi minimalista) modulo analitico ai frequenti long-take della prima parte, dove comunque, anche ricorrendo maggiormente ai necessari interventi di montaggio, Zemeckis non complica mai la messa in scena oltre semplici campi-controcampi.

Rigore sonoro
Si delinea dunque un approccio di regia squisitamente asciutto, mai superfluo e, per quanto digiuno di fronzoli e virtuosismi, perfettamente funzionale e autoriale.
L'unica sequenza che, stilisticamente parlando, sembra contraddire l’andamento drammaturgico dei film è quella del disastro aereo. Organizzata in un veloce e magistrale esempio di editing, la scena in questione paga invece il suo pegno al rigore dell'intera opera nel difettare del commento musicale.
Ma non è questa l'unica situazione in cui il regista nega la musica ad un momento che, per abusate abitudini cinematografiche, tanto la reclama. Anche quando, dopo i quattro anni di isolamento, Noland riesce a montare una vela, a prendere il mare e ad aprirla al vento - anche in questo momento così tipicamente eroico - Alan Silvestri tace. Solamente pochi istanti dopo, mentre Chuck osserva l'isola scomparire in lontananza, l’intenso, dolente e contenuto tema di Silvestri entra in banda. Per la prima volta. A quasi un'ora e mezza dall'inizio dei film (le canzoni di Elvis sono tutte di matrice diegetica e il tradizionale coro russo del prologo è da considerarsi più per la sua valenza folcloristica che come vero e proprio commento).
II protagonista è precipitato in mare, ha sofferto, ha patito la fame, ha gioito per il fuoco, rimanendo sempre senza un underscoring. Solo ora, salvo e rinato verso la sua terra, merita (o forse riesce a sentire?) la musica. E non potrebbe esserci momento più congeniale: la melodia lo avvolge e lo accarezza come una cura alla fine di un’agonia, per non abbandonarlo più, ormai degno di una nuova vita.
Nella stesura del commento, Silvestri denota particolare attenzione al bisogno filmico, evitando di cadere in cliché di facile attrazione, visto lo scenario isolano: nessuna colore esotico, bensì una ragionata selezione cameristica dell’orchestra (archi, oboe e corno inglese) da cui vengono escluse persino le amate percussioni. è chiara la volontà di arrivare, sempre lavorando in sottrazione, alla purezza intimista (allo stesso principio deve essersi richiamato Zemeckis nella scelta del formato, preferendo la ristrettezza del rapporto 1,85:1 alla spettacolarità dello scope, che troppo avrebbe incentivato l’appeal paradisiaco dell’atollo).
Man mano che il film volge a1 termine, il compositore inserisce piccolissime variazioni, senza però mai intaccare lo spirito del tema portante. Nell'ultimo quadro dell'epilogo, il protagonista guarda in direzione della ragazza che gli ha “salvato la vita” continuando, con il suo pacco, a farlo sperare. Solo un'intensa linea d'oboe a far da commento. Entra un accenno di violini, Zemeckis dissolve al nero sui titoli: è il momento di restituire equilibrio alla mancanza d'immagine con la musica, con lo stesso principio che l'aveva negata alla sciagura aerea. E Silvestri apre la partitura: i violini si alzano e raggiunti dall’intera sezione d’archi compiono una digressione nel tema principale fino ad elevarlo sul pieno orchestrale. è la chiave del film: l'anima di Chuck Noland ferma a quel bivio è ormai cosciente del suo destino. Lo spirito (musica) si eleva al di sopra dell'uomo (dissolvenza). Finalmente il pianoforte restituisce (come era accaduto con l’accordo maggiore nel finale di Contact) quella calma e interezza cui il personaggio andava predisponendosi durante il testo.

Equilibrio
Ora che i codici narrativi hanno raggiunto (e completato) un così pregevole equilibrio di interazione, l'opera compie un’ulteriore, nobilissima evoluzione, delineando con ancor più vigore l'aspirazione all'essenzialità. Prossima alla fine degli end titles - luogo cinematografico che delega allo score un potenziale espressivo esclusivo - la seconda variazione del tema sfuma delicatamente in un campionamento dell'infrangersi delle onde sulla riva. Il compositore newyorkese distilla l'incipit del motivo portante, poi di nuovo il mare; gli archi abbozzano una seconda volta la melodia - ma sempre più brevemente - e ancora lasciano il posto al mare. Pian piano la musica scompare lasciando all'oceano la chiusura.
Il significato latente di quest'ultimo equilibrio restituito tra musica e sonoro è tanto forte quanto astratto. Che esso rappresenti il naufrago, lentamente trasformato, divenuto lui stesso isola, o più semplicemente il desiderio dei due cineasti di servirsi, per l'ultima volta, del mare come unica partitura dell'anima, rimane comunque il segno ultimo di una dialettica tra messa in scena e musica, e di un’interazione (regista-compositore), assolutamente riuscita quanto esemplare.