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the Good sheperd - l'ombra del potere
The Good Sheperd, Usa, 2006
di Robert De Niro, con Matt Damon, Angelina Jolie, William Hurt, Alec Baldwin, Robert De Niro

La noia fredda
recensione di Marco Giallonardi



C’era una volta Oliver Stone e il suo cinema civile, fatto di teorie da scuola elementare, buoni sentimenti e solide famiglie americane alle prese con ridicole crisi da tinello. C’era una volta JFK, che di questo genere è stato un capostipite indiscusso.
Oggi c’è invece Robert De Niro, e i suoi 160 minuti strazianti sulla nascita della CIA, l’organizzazione di Intelligence americana creata dopo il secondo conflitto mondiale e protagonista della guerra fredda anni ’60. Questo è il contesto storico protagonista del film scritto da Eric Roth, già autore di Forrest Gump e Munich (le analogie di questo secondo titolo con The Good Shepherd sono infatti parecchie), un periodo in cui il controspionaggio diventò per chi diede vita a quella organizzazione una malattia incurabile, che non poteva tenere salva da inferenze la vita privata degli uomini che ne furono protagonisti, inevitabilmente invasa dal sistema di segreti e procedure dell’Intelligence. È interessante a tal proposito ritrovare qui, in una particina (gratuita), l’attrice tedesca Martina Gedeck, protagonista del film le Vite degli altri: sembra quasi un fil rouge, quello teso tra queste due operazioni, che può aiutare ad impostare la discussione non tanto su quel film, archiviabile a priori, quanto su questo, e sulle debolezze che lo contraddistinguono. Debolezze che sono prima di tutto dell’immagine e della forma, piuttosto che dei contenuti che il lungometraggio punta a veicolare, della storia scritta a tavolino da Roth e sposata da De Niro, grande appassionato di CIA, guerra fredda e intrighi internazionali degli anni ‘60.
De Niro non è un regista, e si vede. Se 15 anni fa esordì con un film piccolo e sentito, perfettamente in sintonia con un autore nuovo che si misurava con un esperienza inedita (ed il risultato dava ragione alla portata controllata dell’operazione), oggi Bob torna dietro la mdp con un kolossal, ambientato in tanti paesi diversi, che racconta 25 anni di storia americana e mondiale. Piegandosi al servizio del racconto, il regista cade in alcune banalità imperdonabili, ribadendo lo strapotere del significante di cui il cinema americano commerciale è sempre più indubbio esponente. Si consideri l’uso che nel film si fa del dettaglio, eccessivo e tutto sommato comodo. Le cose (i significati) vengono aggrediti e sbandierati senza mezzi termini, rozzamente ribaditi da un’immagine che pedantemente (e squallidamente) segue il suo grande racconto. Torna allora alla mente il momento più alto di Any Given Sunday di Stone, il bulbo oculare perso dal giocatore di football, su cui la mdp volante si precipita, quasi a voler cogliere un’emozione, un sussulto, una verità in quella parte che si vorrebbe quale esponente di un tutto (il significato). Si pensi al ruolo che svolge in questo film l’accompagnamento musicale: ridondante e pedante, come se ci fosse la necessità di gonfiare la storia, di cercare l’epica o al contrario (ma mica tanto contrario…) di creare il fumetto. Mai un momento che il racconto parli da solo, che gli attori si prendano dei tempi, del respiro: o ci pensa l’immagine, a caricare il vuoto, o interviene (ma non si può neanche dire interviene, tanto è continuo ed onnipresente il tessuto musicale) l’accompagnamento degli archi a far salire il livello. Si pensi anche agli ardimenti del montaggio, che condensa il tempo storico molto e bene nella prima parte, ma che non riesce a spogliare lo script delle sue lungaggini, non riesce a creare pathos ed azione in un film eccessivamente di parola, rimanendo ingabbiato in trovate che ci riportano troppo dalle parti di Oliver Stone (il riferimento è al passaggio dal bianco e nero del documento al colore delle riprese, attraverso mirabolanti movimenti digitali della mdp in stile Signore degli Anelli)
E tutto questo accade in un film di genere, e dei più pericolosi. La spy story, quando si concentra sui doppiogiochismi e le crisi internazionali, corre sempre un duplice rischio: quello di risultare incomprensibile (vedi Syriana) o quello di essere ridicolmente chiara e semplice (specie nelle risoluzioni finali). Ecco allora, forse, il motivo del ricorso a strumenti linguistici che rafforzino il senso, che chiudano nel significato eventi ed esistenti del film. Ma si tratta di una procedura che strozza i sentimenti e la fruizione, che impedisce al prodotto di respirare, e che soprattutto rischia di forzare i contorni di tono ed atmosfera della storia: troppo spesso si ha la sensazione che la suspense sia cercata a tutti i costi, tirata per la coda e sbattuta in faccia allo spettatore senza ritegno. Un modo di fare cinema che, lo ripetiamo, ci si poteva aspettare da registi di altro tipo, non da un uomo come De Niro, che ha attraversato da protagonista le storia del cinema americano recente, lavorando con tutti gli autori significativi. Da lui no. Magari ci potevamo aspettare qualche rozzo pressappochismo psicologico (vedi il ridicolo rapporto/conflitto padre-figlio), una direzione degli attori superficiale (non mi fate parlare di Angelina Jolie, vi prego, e di quel canotto che ha in faccia), qualche perdita di tensione progressiva, con il passare degli interminabili 160 minuti. Potevamo aspettarci che ci annoiasse, e lo ha fatto. Che ci deludesse, e ci è riuscito perfettamente. Ma almeno qualcosa di quel tocco, di quella levità, di quello spirito, di un cinema che lo ha visto protagonista per almeno vent’anni, avremmo sperato di ritrovarlo, anche in filigrana, in questa sua seconda regia. Da lui ci aspettavamo, forse ingenuamente, una sensibilità un po’ più raffinata nel rivolgersi allo spettatore. O forse in effetti, viste anche le sue più recenti scelte da attore, tutto sommato non è andata poi così male, non credete?...