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le Vite degli altri
Dal Leben den Anderen, Germania, 2006
di Florian Henckel von Donnersmarck, con Martina Gedek,
Ulrich Muhe, Sebastian Koch, Ulrich Tukur
Il controllo e la messa in scena
recensione di Francesco Rosetti
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Spesso ci si chiede perché
non funzioni una opzione di cinema europeo. E una sorta di moltiplicazione
della domanda che affligge i vari cinema nazionali (francesi inclusi)
in tutto il continente e che ovviamente dovrebbe trovare varie risposte
a livello produttivo e industriale, prima ancora che ad un semplice
livello di ispirazione personale del singolo autore. Comunque una risposta
è possibile a grandi linee abbozzarla, solo se almeno le domande
illuminano qualche versante non ben definito della questione e allora
ci si prova a farle: di cosa parla un cinema che si vorrebbe europeo?
E come ne parla? Soprattutto come rende se stesso cinema? Le risposte,
che non sono certo univoche, si danno a partire da questa questione
identitaria, che sotto molti aspetti trascende il cinema per arrivare
allantropologia e alla storia, ma che poi al cinema torna. Abbiamo
visto come il cinema americano, perennemente assetato di narratività,
abbia sempre trovato un modo di relazionarsi alla propria realtà
sociale e storica rendendola un genere, cioè immediatamente interpretandola
e consentendo ai suoi autori migliori di avvicinarla, comprenderla,
rispettarne la distanza. Il cinema americano è sempre stato metacinema
e interpretazione. E in Europa? E in questo le Vite degli altri?
A giudicare da questa pellicola di un giovane esordiente tedesco la
risposta parrebbe essere: si oscilla. Si oscilla tra una sorta di realismo
documentario teso e asciutto e una rivendicazione della drammaturgia,
con i contenuti manifesti che una drammaturgia si porta dietro. Non
sono questioni da poco perché le Vite degli altri
affronta un tema non da poco: un pezzo doloroso di storia tedesca ed
europea, la Stasi e la sua sindrome di controllo di unintera nazione
e dietro la storia le complesse interazioni tra singolo e potere, anzi
tra chi recita (due drammaturghi di successo) e chi critica (una spia).
Manteniamo ancora la polarità (in parte fittizia sia chiaro)
tra cinema americano ed europeo. Probabilmente autori come Eastwood
avrebbero prima disseminato il film di topoi di genere per poi arrivare,
attraverso la metafora, alla storia, facendo ricordare solo in un secondo
momento il luogo storico dellazione: il luogo vero della storia
è il cinema. Questo avviene dove vi sia un immaginario in azione,
nel bene e nel male. Florian Henckel von Donnersmarck non si trova in
questa condizione. Deve partire dal documento, la storia, che però
si rivela sorprendentemente opaca. Risulta difficile addentrarsi nella
Storia perché i pregiudizi, quanto più un regista cerchi
di farne a meno, tanto più permangono e Berlino diventa sempre
e comunque unidea di Berlino, la Stasi una metafora onnicomprensiva
del potere. La soluzione cercata è quella di immergersi lentamente
nel microrealismo istituito attraverso i personaggi. Per ricreare la
Berlino della DDR, la sua mediocre imbalsamazione, il regista costruisce
un triangolo, parte dai personaggi, anzi per la verità da un
singolo personaggio in potenziale crisi di coscienza, una spia, e su
di lui concentra tutte le macrovicende storiche. Da questo punto di
vista niente da eccepire: il trucco funziona, Ulrich Muhe è bravissimo
a far trasparire ossessività meccanica e dubbi, attività
critica (il vaglio delle vite altrui) e tentazioni empatiche. Insomma
lattore riesce ad incarnare la drammaturgia e attraverso la drammaturgia
la storia patria con annesse metafore. Ovviamente il film regge tutto
su questo presupposto alla fin fine lieve, cioè che i personaggi
reggano. E uno strano scacco per un film che tende ovviamente
allautorialità e che la raggiunge in unottima e tesa
narrazione. Tutto bene, ma manca un immaginario, unidea di forma
e di etica della forma che possa reggere davvero tutto il discorso e
possa ulteriormente rilanciare la speculazione di Florian Henckel von
Donnersmarck. E torniamo al problema dellimmaginario condiviso
e del lavoro che si rende sempre necessario a livello di messa in scena.
Il film non vuole essere una riedizione de la Conversazione,
che tra le tante cose era anche una cartina di tornasole eccellente
della paranoia nixoniana, ma proprio per questo non riesce a toccare
ma solo a sfiorare quello che è il dramma che coinvolge chi debba
vivere sotto un sistema di potere pervasivo e onnicomprensivo; concentrandosi
paradossalmente e con rigore sui personaggi il regista manca la messa
in scena, la forza metaforica che dovrebbe rendere la condizione di
forzoso isolamento, il curioso avvicinamento della spia agli spiati,
il voyeurismo che contraddistingue chi in un certo senso domina attraverso
locchio le vite degli altri del titolo. Il dramma diventa allora
solo il dramma di un singolo e non risuona oltre la costruzione dellintreccio.
E il film, ben scritto e ben sceneggiato, suscita una lieve insoddisfazione,
rimane come sospeso in una zona di indecidibilità, come non potesse
essere adeguatamente visto.
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