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id., Usa, 2005 di Stephen Gaghan, con George Clooney, Jeffrey Wright, Matt Damon, Alexander Siddig, e Mazhar Munir. Lontani dai bucolici carmi di valli invase dagli ovini al pascolo, lontani da quell’immagine politically correct che l’'America ama dare di sé, i cow-boys si rivelano per quello che sono in realtà: predatori di risorse e faccendieri in doppio petto grigio. Film a tesi, difficile da seguire all'inizio perché giocato su diverse trame parallele - non a caso Gaghan è stato lo sceneggiatore di Traffic e, negli ultimi anni, da Happiness a Magnolia, la coralità del racconto sembra congeniale alla rappresentazione della molteplicità della vita - è ritratto fin troppo fedele della situazione medio-orientale. Negli anni ’'70 si decise quale sarebbe stata la politica vincente contro il caro-petrolio: a Rambouillet si scelse di arricchire poche famiglie arabe influenti che avrebbero sperperato le proprie risorse. I milioni di petrodollari sarebbero stati convertiti in beni di lusso e il mondo arabo, esaurite le scorte petrolifere, sarebbe tornato a pascolare ovini. Sull’altro versante, i fanatismi religiosi avrebbero cercato di dare risposte alla miseria dilagante con soluzioni altrettanto criminali, in nome di un dio invece che di un futuro in borsa. Questa è storia, ma vederla rappresentata in due ore di film “made in U.S.A.” e confezionato per il grande pubblico fa differenza. Scegliendo un cast di attori noti che si sono prestati a interpretare semplici cameo o personaggi sgradevoli; girando nelle locations reali per dare al film uno stile quasi documentaristico, sottolineato anche dalla scelta del direttore della fotografia Robert Elswit di usare le cineprese a spalla - che, soprattutto nella descrizione dei campi petroliferi, riescono a far deglutire allo spettatore i nugoli di polvere che rendono l’'aria irrespirabile; optando infine per una recitazione in lingua originale e, quindi, per la commistione di arabo, farsi, urdu, americano e francese, il regista ha saputo ricreare ambienti e situazioni credibili, che scorrono all'inizio paralleli, per poi convergere nella scena finale - forse un po' troppo alla De Palma per una pellicola che avrebbe meritato una conclusione sottovoce, una leggera sfilacciatura (perché, pur sapendo dopo i primi dieci minuti come sarebbe finita, il silenzio si sarebbe rivelato molto più esplicito). Nella complessità delle storie raccontate, spiccano alcuni ruoli che è bene sottolineare: il male in giacca e cravatta, dell'inconsapevole uomo in grigio, l'avvocato che studia conti e carte e intanto - con mani nette - causa distruzione più di un signore della guerra è interpretato da un Jeffrey Wright perfettamente in parte; mentre il giovane Mazhar Munir è capace di rendere lo squallore dell'esistenza di un ragazzo pakistano che, licenziato dalla compagnia petrolifera del Golfo per la quale lavora, rischia il rimpatrio forzato - la Bossi-Fini al confronto sembra una legge democratica e civile –- e, lentamente, nella sua ricerca di un’altra occupazione, di una speranza di vita migliore, della realizzazione di un sogno, si lascia coinvolgere da un gruppo di fanatici religiosi che lo usano per i propri scopi, con la stessa ferocia utilizzata dalla società capitalistica. Un breve discorso a parte merita George Clooney, che si è finalmente gettato alle spalle per sempre "E.R." e si è dimostrato uno dei registi più interessanti oggi al lavoro, grazie al magnifico Good Night, and Good Luck - indubbiamente il miglior film del 2005. In Syriana, eccolo finalmente attore capace di scomparire dietro al proprio ruolo - non di belloccio scanzonato alla Cary Grant, ma di disfatto agente CIA di mezza età, pingue e grigio nella sua incomprensione per i meccanismi nei quali è coinvolto. Come il De Niro di Toro scatenato, ingrassato tredici chili, con il ciuffo bianco e la barba incolta: le sue fan avranno poco da ammirare, ma il film se ne giova ampiamente.Unica pecca è una certa uniformità nella scelta della fotografia che se ben si sposa con la storia dei giovani pakistani, non aiuta lo spettatore a posizionare luoghi e personaggi nel loro giusto contesto - a differenza del già citato Traffic che utilizzava invece diversi modi di ripresa e colori per connotare, anche visivamente, le varie situazioni che si svolgevano in parallelo. L'altro neo è una certa prolissità e un finale apocalittico che meglio sposerebbe il genere thriller, piuttosto che la complessità di quest'opera - anche se il buio che avvolge Jeffrey Wright nell'ultima scena sembra rimandare al buio della mente che sta avvolgendo la nostra civiltà. |