Déjà vu - Corsa contro il tempo

Il vedere come onnipotenza e come intuizione
di Emanuele Boccianti

 
  Déjà vu, Usa, 2006
di Tony Scott, con Denzel Washington, Val Kilmer, Paula Patton, Jim Caviezel


Che Déjà vu abbia tutte le caratteristiche per essere un blocbuster di razza è un fatto innegabile. Lo si capisce dai primi minuti: Tony Scott squaderna le sue armi con fine prepotenza, regalandoci i preliminari di una catastrofe più riusciti degli ultimi tempi, e cioè ritmo compresso e adrenalinico, senso di incombenza, panoramiche pindariche, ralenti e, cosa degna di menzione, neppure un dialogo. In quei minuti lo spettatore accorto capisce cosa il film gli sta promettendo e manterrà: non la grana fine –un po’ anni 70- dello Scott di Spy game, ma la serotonina in dosi equine che va in circolo prima piano, poi sempre più invasiva, dello Scott di Nemico pubblico,e infatti non troviamo mica Redford a fare il detective esperto di esplosivi, ma, guarda caso, il buon vecchio Denzel "Man on fire” Washington. Vieppiù, ritroviamo decisamente in forma anche Paul Cameron alla fotografia (Man on fire appunto, ma anche Collateral, Codice Swordfish e Fuori in 60 secondi), più un entourage alla produzione che arriva su fino a sua eminenza Jerry Bruckheimer, mister Fulmine a ciel sereno (quello è il suo logo, e riassume bene molte delle sue storie), colui senza il quale cinema e televisione statunitensi non sarebbero la stessa cosa. Parlavamo all’inizio di blockbuster di razza: ecco, questo è un pedigree esemplare.
Eppure non basterebbe apparecchiare una crew roboante come quella di cui sopra, per fare un film che non si spenga nel ricordo come le sue pirotecniche trovate registiche all’accendersi delle luci in sala. Come già in Nemico pubblico, il nostro Tony torna a parlare di quella che deve essere una sua piccola ossessione di potere (artisticamente parlando): l’onnipotenza visiva. Stavolta girandola a fin di bene, si può dire, perché mentre nel seguito de la Conversazione il “Grande Occhio nel Cielo” è quello dei satelliti spia, estemporaneamente (?) votati alla persecuzione di un povero Will Smith tradizionalmente nel posto sbagliato al momento sbagliato; qui in Déjà vu siamo alle prese con un rivoluzionario e fantascientifico metodo di investigazione che permette di avverare quello che deve essere stato il sogno di ogni investigatore dai tempi di Sherlock Holmes. Un bel buco di tarlo, o galleria di Einstein-Rosen che dir si voglia, ed ecco che è possibile esplorare la scena del crimine prima che il crimine avvenga, manovrando una telecamera virtuale che si muove in ogni direzione possibile, perfino attraverso i muri, zoomando, allargando, e via dicendo. È un occhio onnipotente al servizio dell’investigazione criminale, e qualcosa che dà un senso nuovo alla cosiddetta “crime scene investigation” (e, guarda il caso, CSI è stato uno dei marchi di fabbrica Bruckheimer più celebri del 2005). Per contrastare un potere così forte, c’è bisogno di un tallone d’achille, e qui abbiamo il controtema, che crea una intrigante tensione nell’andamento della storia: se infatti da un lato abbiamo illimitate potenzialità autoscopiche per gentile concessione della tecnologia, è anche vero che resta una qualità del tutto umana, e quindi fondamentalmente legata all’intuizione, sapere cosa guardare, specialmente (ecco l’escamotage geniale) se non è possibile il rewind della visione, se puoi vedere ogni cosa, ma solo una volta. Allora: dove guardare? Se tutto è pertinente (cioè se tutto è potenzialmente portatore di un significato cruciale), ciò che fa la differenza non è più l’occhio divino che scavalca i muri e torna indietro nel tempo, ma il sesto senso del singolo detective che ha il dono del saper vedere, di contro alla magia impersonale del puro poterlo fare. Non a caso, nella sinergica dialettica uomo-macchina, sarà il detective Carlin, cioè il nostro Denzel popolare, a fare il passo decisivo, scegliendo di andare a guardare qualcosa che non è nella scena del crimine, o meglio c’è, ma in una scena del crimine allargata secondo una folgorante intuizione che Carlin aveva avuto, nota bene, prima di potersi servire del “cronoscopio” (come lo aveva chiamato, quarant’anni fa, Isaac Asimov in un suo racconto).
È proprio questo rimpallo mozzafiato tra capacità della tecnica e capacità del talento ciò che la regia di Scott e la fotografia di Cameron ci servono con cotanto condimento, creando un mix che comunque stimola sia l’adrenalina che la corteccia cerebrale. Un mix che funziona finchè è in equilibrio. Poi l’equilibrio si rompe a favore della impennata retorica finale: il film si trasforma in uno dei soliti viaggi nel tempo quando l’eroe in mutande e canottiera si fa sparare indietro al giorno del crimine per salvare capra e cavoli (leggi: la sua innamorata defunta e le vittime della strage). Qui la sensazione di vero e proprio déjà vu aggredisce lo spettatore (Donnie Darko, ma anche Minority Report), proponendogli il più classico dei finali, ma anche un ultimo scampolo di riflessione: che sia cioè in atto una differenza –e un confronto- sostanziale tra due opposte tipologie di detective, ossia quello a-morale e ultratecnologico che si accontenta, a posteriori, di sapere come sono andate le cose e assicurare alla giustizia il criminale, e quello più eroico e a-tecnologico nell’anima, che può concepire il mezzo tecnologico solo se realmente gli fornisce la possibilità di cambiare le cose, cioè di preservare la vita umana. In questa prospettiva, ci sembra il minimo che all’eroe venga in fin dei conti permesso di salvare, hollywoodianamente, la fatidica capra e i fatidici cavoli.