Minority Report

Un rapporto di minoranza estetico
di Giuliano Tomassacci


Spielberg: Brave New
(Cruel) World

  Id., Usa, 2002
di Steven Spielberg, con Tom Cruise, Samantha Morton, Max Von Sydow


Poco è meglio.
L’arte dell’essenziale e del necessario, scrupolosamente coltivata e così discretamente raggiunta nella penultima fase creativa spielberghiana (che trova il suo acuto nell’eleganza espositiva di Schindler’s List e nella totalità di Salvate il Soldato Ryan) sembra subire una rilevante deviazione nel più recente biennio produttivo. E se il variegato, distrattamente divertito mutamento (non un inviluppo – poiché Spielberg e sempre stato cineasta di elevata coscienza del media – ne una maturazione, che comunque si palesa nelle stimolanti tematiche delle scelte narrative) emergeva allarmisticamente nel secondo atto di A.I. – Intelligenza Artificiale, è senza dubbio Minority Report a farne le spese maggiori.
Film “cuscinetto” (sovrapposto – e si vede – alla post.produzione di A.I. e fin troppo confinante con la lavorazione di Catch Me If You Can), vittima di un vizio prolifico che con l’eccezione di illustri risultati(Jurassic ParkSchindler’s List, 1993) non ha mai portato grande fortuna al regista americano (Indiana Jones e l’Ultima CrociataAlways, 1989; The Lost WorldAmistad, 1997) Minority Report risente in primo luogo dell’infelice quanto confusa riduzione dell’interessante racconto di Philip K. Dick.
John Anderton (un Tom Cruise in parte ma sempre monocorde), incastrato dalla società pre-crimine per cui lavora, fugge verso il suo futuro rendendosi colpevole dell’omicidio che i tre Pre-Cog gli hanno affibbiato nella loro quotidiana visionarietà. Ben presto la sua fuga dalle autorità si mischia ad un indagine su alcuni “rapporti di minoranza” espletati in un possibile errore di preveggenza dei Pre-Cog. Con il fondamentale aiuto di uno di questi, la più sensibile Aghata, in uno scenario fantascientifico ai massimi della didascalicità (continuamente “mostrato” e mai insinuato, proposto,accennato), cadute ironiche sbilanciatissime ed un monopolio digital-effettistico pregiato e perfetto, ma decifrabile e innocuo, Enderson arriverà alla “vera” verità e alla sua personale riappacificazione, morale e sociale.
Da parte sua, Spielberg lavora al meglio sul materiale profilmico, assicurando per buona parte del film una scrittura attiva ed inventiva, funzionale conciliazione dei suoi stili passati e recenti, con un certo gusto citazionale - più o meno voluto – eterogeneo (si avvertono rimandi a Verhoeven, Scott per motivi di testo inevitabili, Cannon, Zemeckis, Marker-Gilliam, di nuovo Kubrick) senza però riuscire ad imporre un controllo ed un a misura maggiori allo strabordante fluire narrativo. Determinante, sebbene alle volte eccessivamente carica ed “ostentato”, la fotografia di Kaminski: il suo connubio con Spielberg, oltre ad emergere come rapporto di minoranza stilistico, insufficiente rispetto al fabbisogno estetico e funzionale dell’opera, si conferma tra i più interessanti nel panorama contemporaneo.
Di contro, l’esile partitura originale di John Williams, inframmezzata a estratti ‘interni’ di Haydn, Schubert e Ciaikovskij, non cresce al di sopra di un servile e poco ispirato commento, anch’esso attraversato da echi musicali di A.I.. Anche in questo caso i motivi sembrerebbero derivare dalla fitta produttività del compositore: la genesi dello score è avvenuta infatti a stretto contatto con la registrazione delle musiche per Guerre Stellari: L’Attacco Dei Cloni, obbligando Williams a contravvenire all’usuale rapporto creativo con Spielberg, solitamente attivo sin dalle prime movenze del progetto.
In evidente frizione con le recenti dichiarazioni del suo autore sul bisogno di un cinema più personale e sperimentale, Minority Report, che annovera tra i suoi produttori anche Jan De Bont, non può che innestarsi nell’infausta e quantomai scomoda posizione di blockbuster d’alta classe. E se è vero che pochi altri come Spielberg possono permettersi di “distrarsi” raggiungendo comunque risultati così dignitosi, è anche vero che il cineasta ha tutte le carte in regola e le possibilità per tirarsi fuori dalle convulse strategie produttive della catena di montaggio hollywoodiana, magari concedendo maggior meditazione ai futuri lavori.
Poco (=misura) sarebbe stato meglio.