John Carpenter
Antologia di dichiarazioni
a cura di Adriano Ercolani e Luca Persiani


John Carpenter
 
Mia madre mi ha regalato la fantasia. E mio padre la musica. Due regali non da poco.

Bunuel e Polanski sono tra i registi che più mi hanno influenzato. Sono spesso stato accusato di essere un regista più europeo che americano.

Una volta avrei voluto essere l'Howard Hawks degli anni Settanta e Ottanta.

Preferisco ancora la science fiction. E' questo ciò che vedo più volentieri. Dopo Hawks e Bunuel. Soprattutto la science fiction degli anni Cinquanta.

Sono cresciuto guardando i film western e di science fiction.(…) I western trattano del west americano. Essi sono veramente l'unica mitologia che l'America può reclamare come propria. Nella science fiction solitamente sono americane le conoscenze e l'intervento risolutore per la salvezza del mondo. Entrambi i generi sono completamente americani in ogni senso.

Quello che mi ha convinto a diventare regista è avvenuto nel 1956. Si trattava di un film intitolato Il pianeta proibito. Era un film che ti trasportava veramente altrove. Non si svolgeva sulla terra. E' stato uno dei primi film che ho visto che fosse interamente ambientato in un altro mondo. Era semplicemente incredibile. Una rielaborazione della "Tempesta" di Shakespeare. E' una storia che mi piace molto, tutto il film era sorprendente. Così mi sono detto: voglio fare qualcosa del genere.

E' stata una scelta deliberata quella di andare in una certa direzione: Hitchcock, Hawks, Ford, Welles, i cineasti americani classici. Quando ho fatto i miei studi di cinema, sono loro quelli che mi avevano appassionato, Ma da un altro lato avevo un'altra sensibilità, quella della science fiction e del terrore. Ma per me Hawks e Corman non sono in contraddizione. Io ho tentato di conciliarli.

Roger Corman non mi ha mai preso! Non mi voleva!

Alla base di Halloween c'è un'idea semplicissima. Niente di speciale. Non è altro che un pretesto per l'azione. Lo stesso vale per Psycho: è un folle in una casa. Ma Psycho è stato il nonno degli slasher, non era mai stato fatto un film di quella forza prima di allora. E' stato l'inizio dell'horro moderno. Hitchcock ha cambiato tutte le regole. Tutti i cliché. Ma la scena che fa più paura, per me, non è quella della doccia, è quella in cui Arbogast sale le scale, con la macchina da presa che lo segue dall'alto. La porta si apre ed esce la madre di Norman Bates. (…) Perché Hitchcock ha messo la macchina da presa rivolta perpendicolarmente verso il basso? Per non dover svelare che, in realtà, la madre non era una donna. E' geniale. Così ho preso quella sequenza come punto di riferimento e ci ho costruito intorno un intero film, un film su qualcosa che viene fuori dal nulla.

Ho subito molto l'influenza de La cosa da un altro mondo di Hawks mentre giravo Halloween. E' un film che davvero gli assomiglia molto.

C'è un cliché a Hollywood, per cui nei film dell'orrore il mostro deve essere un'ombra (…). In film dell'orrore accettabili, i mostri non li vedi troppo. Come in Alien. Quello è tutta una questione di scenografie, bellissime scenografie e non è affatto grottesco. La cosa è un film grottesco e per qualcuno è stato troppo. Alien è design, una sorta di bellissimo design. La cosa era troppo, stavano vedendo troppo, era così assurdo.

E' una questione di denaro, tutta una questione di denaro. Se La cosa avesse avuto successo, ne avrebbero fatti ancora. Ma il pubblico non voleva più quello, era stanco di film pessimisti: volevano vedere film patriottici, rassicuranti, ottimisti. La cultura era cambiata.

La cosa è stato frutto di una decisione consapevole e non lo cambierei. Sono convinto che sia stata la scelta giusta. Se solo il pubblico fosse stato pronto, la mia carriera sarebbe stata diversa. Ma non lo era, non era pronto. Se dovessi tornare indietro, comunque, non farei diversamente. Per me i tempi erano maturi per un film del genere. (…) E' il film che volevo fare. Era un film sul sangue, sull'identità: non c'era scelta.

Grosso guaio a Chinatown è stato semplicemente un gran divertimento. E' il frutto del mio amore per il cinema di Hong Kong e il kung fu.

Essi vivono è un documentario, più che una fiction! Dopo le ultime elezioni, i mostri sono dappertutto. Guardate il Congresso! Il Paese sembra suscettibile di precipitare nel fascismo. Non sono sicuro che tutto questo si arresterà in tempo. E' molto chiaro che per me il mondo è peggiorato. E' incredibile ora. Il fascismo ritorna! (…) Il discorso politico di questi tempi è condotto da uomini grevi. E' selvaggio. Tutta questa robaccia mi sta stordendo.

Starman e Avventure di un uomo invisibile sono film per famiglie, per signorine, sono film più gradevoli. Mi piace questo genere di film, ci si diverte a farli. Girare Avventure di un uomo invisibile non è stato divertente per varie ragioni, ma il film è venuto fuori abbastanza bene. E' un film programmato, in un certo senso. Non è un film privo di fascino, sgradevole.

Tra 1997: Fuga da New York e Fuga da Los Angeles devo dire che preferisco il secondo. E' un film migliore. A me piace di più. Molto di più. Parla di molte cose. Di Hollywood. Degli Stati Uniti. Del nostro credo. Ci abbiamo messo dentro tutto quello che ci è venuto in mente. In generale lo hanno trovato troppo nichilista. Non aveva fede in nulla, era troppo cupo.

In Vampires ho messo Peckinpah e Leone.

Non ho mai pensato che Leone rappresentasse l'epilogo del western; ho sempre pensato a lui nei termini di un ulteriore passo avanti, in direzione dell'opera lirica. Mi sembrava che stesse trasformando la forma.

JC: La ragione per cui Fantasmi da Marte non ha funzionato bene col pubblico è che non poteva essere troppo "stilizzato", troppo postmoderno. Non si poteva riderne o rimanere distanti dagli avvenimenti. L'humor è presente in un'altra maniera. Non ho nulla contro i film che non si prendono sul serio, ma...
Non sono "seri" perché non sono politici.
JC: È sempre pericoloso essere politici, in America. Io faccio dei film politici, forse a causa della mia età. Ma qualcuno potrebbe obiettare che anche Dark Star (1974) è un film politico. Si potrebbe dire che non sono mai cresciuto, o che sono rimasto fedele alle mie idee. Scegliete voi.

Avrei voluto avere Clint Eastwood in ogni film che ho fatto.

Mi piacerebbe fare un musical. Amo i western e i miei film sono spesso western travestiti.

Per "B" non intendo film meno costosi, buoni o importanti, ma film il cui obiettivo principale sia intrattenere. (...) I film di serie A, oggi, sono quelli che una volta erano i film di serie B. Sono tutti i film di genere. E non si può fare nulla di sovversivo.

Io trovo che il mezzo più nobile, il migliore e più efficace che sia mai stato escogitato per far paura, per quanto riguarda il pubblico, è non mostrare troppo! Soprattutto non sforzarsi di essere chiari!

E' sempre lo stesso, fare un film è sempre la stessa cosa, sia che tu lavori come indipendente che con uno Studio: stai soltanto raccontando una storia, si tratta solo di questo (…). E' la scelta del soggetto ad essere importante.

Hollywood è un mercato, è commercio, noi vendiamo prodotti. Così, se mi accingo a fabbricare un prodotto, proverò a fare qualcosa che faccia guadagnare la Compagnia: ecco cosa voglio fare. Ma il mio primo diritto d'autore sarà fare un film personale, questo è ciò che tento di ottenere, fare di ogni cosa qualcosa di mio. Se voi mi date un vostro script, bene, quello diventa il mio film, ne farò il mio film, nel modo in cui io lo vedo. Ecco perché vengo ingaggiato, perché faccio film.

Mi piacciono i brutti film hollywoodiani come Armageddon, sono divertenti, molto divertenti.

Io non amo intellettualizzare sulle tematiche. Mi piacerebbe dire "sì, avete ragione, l'avevo pensata così! Oh sì, avete ragione!". Ma non è così.

La mia filosofia del cinema è che i film non sono opere intellettuali, non sono idee, come succede in letteratura. I film sono emozioni.

Non credo che il cinema sia un mezzo per comunicare messaggi. (…) Il cinema è un mezzo per trasmettere sensazioni. Un film invita il pubblico a dare consistenza alle idee, in senso psicologico, ad investire sullo schermo le proprie emozioni.

Le unità di tempo, spazio e azione sono sempre state importanti nelle mie storie, sebbene la moderna concezione di regia, che presuppone un'attenzione che non supera i tre secondi di durata, di solito tende ad abbandonarle.

Inquadratura ed obiettivi sono sempre una mia scelta. (...) Lo zoom è uno strumento per pigri, è facile da usare. Lo metti su ed ottieni immediatamente del movimento.

Montare un film ti dà una grande prospettiva su quello che puoi fare come regista - ciò di cui hai bisogno per raccontare la tua storia. Penso che ogni regista che abbia montato un film sia facilitato enormemente in questo. E' come apprendere l'uso della macchina da presa. Devi imparare tutti gli aspetti della realizzazione di un film per poter raccontare una storia.

La tecnica non è fine a se stessa, è il mezzo attraverso cui raggiungi il pubblico. Non voglio fare un film in cui la storia sia subordinata alla tecnica. Penso che il cinema sia un mezzo di comunicazione visuale e che la macchina da presa debba esprimere visivamente tutto ciò che accade. Il dialogo c'è per sostenere ciò che si vede, ma è il vedere che conta.

La parte più importante rimane il momento delle riprese: quello è il film. Poi lo si monta. C'è un vecchio detto nell'ambiente: se hai un brutto film e abbastanza tempo per montarlo puoi farne un film decente. Se hai un film decente e abbastanza tempo puoi farne un buon film, e se continui a lavorarci puoi migliorarlo ancora. Ed è bello, perché lo vedi prender forma. Ma devi avere la pellicola, devi averlo girato. E' lì che si fa tutto. Con i piedi piantati per terra sul set, a girare.

Forse i miei film arrivano troppo presto: vengono apprezzati solo molto dopo la loro uscita. È come se avessi un pessimo tempismo. Ma il tempismo fa parte dello show business. E io faccio parte dello show business.

Io sono un capitalista. Sono un conservatore in fatto di soldi. Mi piace fare soldi e mi diverto a fare film.

Cerco di dare un senso alle cose. Questa è probabilmente la battaglia della mia vita, cercare di dare un senso al mondo in cui vivo, in cui mi sono trovato a vivere. Non ho scelto io in che epoca vivere, ma mi ci ritrovo. Per me l'importante è riconoscere qual è la mia realtà, è il massimo che possa fare. Quindi, quando faccio un film, suppongo di lavorare su di essa.

Penso in continuazione di abbandonare il cinema. A volte questo lavoro perde un po' della sua magia. Ti ritrovi coinvolto in cose talmente lontane dalla creatività del processo cinematografico che non hai più la sensazione di stare facendo un film, ma di allestire una campagna elettorale. La stessa sensazione di vuoto. "Perché l'ho fatto? Di nuovo, per quale motivo? Che cosa ne ricavo? Ah! E' vero, ci pago le bollette". A volte ci penso i questi termini.

Io credo che l'individualismo sia la più umana delle qualità. Sono una persona antiautoritaria, assolutamente antiautoritaria. Io penso che tutti noi condividiamo l'umanità, siamo tutti la stessa cosa nel profondo, siamo tutti spaventati dalle stesse cose, tutti.

L'America è vincere o perdere, come nello sport. È un paese semplice. Niente a che vedere con voi, che venite da più lontano. Noi non esistiamo che da duecento anni. Facciamo quello che possiamo. (...) Dovete rendervi conto che noi viviamo in una beata ignoranza. Recentemente il paese sì è distaccato dagli affari del resto del mondo, come se non si volesse immischiare, come se avesse tutte le risposte. E la ritorsione è stata brutale. La conseguenza nell'industria è stata che ora non c'è più la volontà di fare film come i miei.

La sopravvivenza. Ecco quello che mi preoccupa di più. La sopravvivenza di tutto. Sono un figlio della guerra fredda. Sono cresciuto con la minaccia della distruzione totale. Era una cosa reale per la mia generazione, molto reale. (...) Invece l'11 settembre le immagini dell'America erano come fantascienza. Gli aerei schiantati sulle torri... Un attacco insieme simbolico e reale, contro dei corpi e una cultura. (...) Ma non abbiate paura, ne usciremo.

La cosa più terribile riguardo al diavolo, nel momento in cui si introduce nel nostro cuore, è che noi stessi diventiamo dei mostri, degli animali, letteralmente dei demoni, con le cose che ci facciamo reciprocamente. Scegliere di essere umani è cercare la compassione, l'amore, la passione ogni giorno, come se fosse un impegno a lunga durata.

Il solo posto dove si può spegnere il mondo è il cinema.

Citazioni tratte da
Interview, di Giona A. Nazzaro, GS Editrice, 2000.
John Carpenter, di Fabrizio Liberti, Il Castoro Cinema, 1997.
John Carpenter, di Giulia D'Agnolo Vallan e Roberto Turigliatto, ed. Lindau, 1999.
John Carpenter - La peur voyage, intervista di Hélèn Frappat e Olivier Joyard, in "Cahiers du cinema" n°562, novembre 2001, traduzione e adattamento di Luca Persiani

 

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