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Dario Argento

Giovane, immaturo maestro dell’orrore
frame-stop di Piero D’Ascanio



La carriera di Dario Argento, maestro italiano del thrilling e dell’horror, conosciuto e amato soprattutto fuori dai nostri confini, sembra destinata a conoscere una nuova giovinezza. È una sensazione che in larga misura deriva, ovviamente, dalla visione del suo ultimo lavoro: la Terza madre (2007), furibonda quanto ingenua chiusura di una trilogia iniziata trent’anni fa, sancisce una netta inversione di tendenza dal modo d’intendere e fare cinema espressi dai lavori ad esso subito precedenti. Ci riferiamo a pellicole come il televisivo Ti piace Hitchcock (2005), il Cartaio (2003), Nonhosonno (2000) e il Fantasma dell’Opera (1998), eccettuando invece la recente doppia esperienza statunitense della serie Masters of Horror (2005, 2006), anch’essa televisiva, ma al contrario animata dallo stesso spirito “giovane” da cui origina l’ultimo lavoro cinematografico dell’autore; su di esso, infatti, è assolutamente operante l’influenza benefica esercitata dalla parentesi americana dei “maestri dell’orrore”, soprattutto in termini di una nuova libertà artistica derivata dal regime produttivo semi-indipendente di cui si è giovato il progetto. Ciò che stava uccidendo il cinema istintivo e viscerale di Argento in patria era proprio l’omologazione estetica ai canoni televisivi nostrani, operante a livello quantomeno subliminale (esplicito, ovviamente, nell’ Hitchcock ) in tutte le opere dell’ultimo decennio. Decisiva quindi la “liberazione” estetica dei Masters: in questo caso, una committenza televisiva di ben altro stampo ha favorito il ritorno a sapori horror fortemente marcati, che hanno restituito al genere una coloritura “sovversiva” secondo noi imprescindibile; essa è particolarmente sottolineata nelle migliori opere delle due stagioni, quelle di Miike, Landis, Carpenter, dello stesso Dario Argento e soprattutto di un Joe Dante in forma smagliante.
L’affrancamento dell’autore romano dai canoni che ne stavano in qualche modo “anestetizzando” la carica horror, e il suo conseguente ritorno a una freschezza di approccio al genere estremamente giovanile, nascondono al loro interno una potenziale tara, che per la verità già si palesa chiaramente proprio nell’ultima pellicola: il rischio è infatti quello che Argento dimentichi per sempre la “ricetta” del thrilling - se non l’ha già fatto -, proprio lui che nel genere ha tracciato, fin dai primi Settanta, un solco incancellabile. L’ultimo titolo di un qualche rilievo in questo senso data infatti 1992 - Trauma -, e da lì il percorso è stato sempre più diretto verso l’abbandono progressivo di una narrazione forte, in favore di istanze irrazionali più consone all’horror puro. Non dimentichiamo che si sta parlando di un cineasta che non è mai stato un paladino della scrittura, nemmeno quando i gialli li faceva, e li faceva bene. Altre, non occorre ribadirlo, sono sempre state le frecce all’arco di Argento; peccato che nei film citati manchino anche e soprattutto quelle, elemento che mette in imbarazzante risalto l’assenza di una penna felice in fase di sceneggiatura. Di solito, l’adozione da parte dell’autore di una struttura thriller - intesa in senso generico – faceva quantomeno in modo che egli non si sentisse legittimato ad abbandonare completamente la storia a se stessa, lasciando che gli attori si riducessero a mere pedine da mandare al massacro. Almeno, così era stato all’inizio. Ripercorrendo la filmografia del cineasta, infatti, ci si accorge con facilità che dal punto di non ritorno segnato da Profondo rosso (1975) la tendenza ad una libertà narrativa ai limiti del “naïf” non ha fatto che accentuarsi; in questo senso, il pur invocato ritorno al thriller dell’autore, dopo il delirante dittico formato da Suspiria e Inferno (1977-1980), si rivela solo apparente, essendo sia Tenebre (1982) che Opera (1987) - non parliamo nemmeno dello sfuggente e inclassificabile Phenomena (1984) - dei gialli talmente innervati di istanze irrazionaliste da sfondare il genere dopo il primo rullo di pellicola. Date queste premesse, da una parte non possiamo non dirci felici dell’attuale ritorno di Argento ad un gesto cinematografico nettamente viscerale, “di pancia”, quello che ha sempre conferito alle sue opere un tocco inconfondibile; dall’altra, tuttavia, siamo seriamente in apprensione: vedremo ancora un giallo di Dario Argento? Vedremo ancora all’opera il narratore, quantomeno nella versione in cui il regista concepisce tale istanza? Del resto, nel lavoro del Nostro, l’attenzione data ai dialoghi e alla direzione attoriale rasenta ormai drammaticamente lo zero; in tal senso, l’irrisolto esito artistico de la Terza madre risulta tristemente eloquente: se fosse stata riservata una maggior cura ad aspetti considerati erroneamente marginali - ancorché in un contesto horror -, a quest’ora forse staremmo parlando di un grande film. Al contrario, ad essere in questione è solo l’ennesima occasione mancata.

l’Uccello dalle piume di cristallo (1969)
con Tony Musante, Eva Renzi, Enrico Maria Salerno.
Folgorante esordio registico del ventinovenne romano, già critico cinematografico e sceneggiatore. Prodotto dalla Seda Spettacoli di Salvatore Argento, padre del regista, e da quest’ultimo interamente scritto, è l’opera spartiacque del giallo all’italiana come cinque anni prima Per un pugno di dollari lo era stato per il western. L’autore denuncia tutte le influenze dal cinema di Mario Bava, ma il risultato finale è comunque personalissimo. A colpire da subito sono il ritmo perfetto e il sorprendente estro di Argento nel “rileggere” il paesaggio urbano in chiave perturbante. Eccezionale tutta la mezz’ora finale, scandita dal dissonante “score” di un Morricone in stato di grazia.
Grande successo di pubblico, e un immediato plotone di epigoni.
Sequenza da ricordare:
la splendida scena “primaria” da cui scaturisce il racconto.

il Gatto a nove code (1970)
con Karl Malden, James Franciscus, Catherine Spaak, Aldo Reggiani.
Commerciale seconda prova dell’autore, voluta nel minor tempo possibile da Goffredo Lombardo della Titanus per “cavalcare” il successo dell’esordio. In produzione, oltre alla solita Seda, la Terra Filmkunst di Berlino e la Labrador di Parigi.
Thriller notevolmente più convenzionale del primo, è il film meno amato da Argento che lo considera troppo “americano”. Piace ai tradizionalisti del genere, molto meno ai fans dell’autore. Cast di prim’ordine - notevole il detective cieco del grande vecchio Karl Malden - per l’unica vicenda gialla in cui non giochi un trauma di origine infantile. Compare per la prima volta il particolare abnorme dell’occhio dell’assassino, in stridente e produttivo contrasto con la cecità del protagonista.
Secondo incasso della stagione 1970-71 dopo Lo chiamavano Trinità di E.B. Clucher.
Frase di lancio: “Questo ragazzo inizia a preoccuparmi. Alfred Hitchcock”
Sequenza da ricordare: l’hitchcockiano brano della profanazione al cimitero (il Monumentale di Torino), prima di molte macrosequenze argentiane.

Quattro mosche di velluto grigio (1971)
con Michael Brandon, Mimsy Farmer, Bud Spencer, Jean-Pierre Marielle, Oreste Lionello.
Personalissima e squilibrata opera terza di Argento, scritta con Luigi Cozzi e Mario Foglietti, futuri collaboratori nella serie televisiva "la Porta sul buio" (1973). Iniziano a diventare consistenti le istanze irrazionaliste, e il disegno dei personaggi si fa più approssimativo e “impressionista”. In compenso colpisce il ritorno ad una regia molto “visibile”, ed estremamente ispirata quando si tratta di lavorare sui nervi dello spettatore. Comunque, non all’altezza dell’esordio, col quale condivide ancora l’ottima colonna sonora di Morricone (presente anche nel Gatto). In co-produzione, ancora una società francese.
Sequenza da ricordare: la morte del colpevole, girata con una speciale macchina da presa Pentazet a tremila fotogrammi al secondo.

le Cinque giornate (1973)
con Adriano Celentano, Enzo Cerusico, Marilù Tolo.
Spuria parentesi storico-grottesca di Argento, fortemente voluto alla regia dal protagonista Adriano Celentano. Scritto con Nanni Balestrini, è rimasta l’unica licenza dell’autore dal cinema thriller-horror. Ha senso solo come momento “defatigante” prima della ripresa definitiva del percorso thrilling. Non certo un film memorabile, e totalmente ininfluente nel discorso sull’artista.

Profondo rosso (1975)
con David Hemmings, Gabriele Lavia, Daria Nicolodi, Glauco Mauri, Eros Pagni, Clara Calamai.
Il capolavoro di Argento. Scritto insieme a Bernardino Zapponi, co-prodotto dalla Rizzoli Film che si aggiunge alla Seda - nella quale entra Claudio Argento, fratello di Dario -, è il manifesto thrilling dell’autore, confezionato come un perfetto “shocker” per lo spettatore. In questo senso, Argento carica la messa in scena con tutti i mezzi che ha a disposizione; la sua macchina da presa non racconta, colpisce. Se narra una storia, lo fa quasi incidentalmente: il baricentro stilistico del film è tutto spostato sulla regia, intesa come calibrazione dell’ordigno thriller e successiva esplosione nella violenza. Il ritmo dato dal montaggio infila un crescendo calcolatissimo, dove ogni pausa è al servizio dell’affondo successivo.
La struttura del giallo viene così fatta saltare definitivamente. Quello che ne viene fuori somiglia piuttosto ad una composizione jazz, anche per il decisivo apporto in colonna sonora delle suite pianistiche di Giorgio Gaslini, perfettamente coordinate con le celeberrime architetture elettroniche dei Goblin.
Argento non è mai stato un “fine dicitore”, è vero: ma qui la tendenza si fa sistema, e l’abbandono delle scorie letterarie del giallo, decisivo. Questo gli rivolta contro il grosso della critica dell’epoca, che ancora gli concedeva un minimo di fiducia; ma con la pellicola del 1975 la rottura è definitiva. Il pubblico, invece, lo ama, e il film fa segnare il secondo incasso della stagione, subito dietro ad Amici miei di Monicelli.
Profondo rosso costituisce una svolta radicale. Sulle vestigia del giallo, stravolto dall’interno fino a minarne la stessa ragion d’essere, Argento si apprestava ora a costruire la sua personale e impervia impalcatura horror.
Sequenza da ricordare: sarebbero molte, e mai le stesse ad ogni revisione. Ciò che rimane sempre in mente è invece l’occhio stesso della macchina del regista: il modo in cui esso “legge” le location, siano esse le piazze notturne di Torino (fatta passare nella finzione per Roma) o le ville art deco sulle colline della stessa città, rimane il lascito più produttivo e moderno del film.

Suspiria (1977)
con Jessica Harper, Stefania Casini, Flavio Bucci, Alida Valli, Joan Bennett.
Sono gli anni migliori di Argento. Subito dopo aver fatto il punto sulla sua via al thrilling, il cineasta romano fa lo stesso con l’horror. E lo fa attraverso la chiave di volta della stregoneria, tema suggerito dalla co-sceneggiatrice e compagna Daria Nicolodi.
Se possibile, Suspiria applica al cinema un trattamento ancor più estremo dell’opera immediatamente precedente. Ma ora siamo in un territorio che supporta con maggior disinvoltura l’estro anarchico dell’autore, e anzi fa di una certa “illogicità” di fondo una delle frecce al proprio arco. Come dire, nell’horror è permesso “non far capire nulla allo spettatore”; ed è come se Argento non aspettasse altro. La libertà narrativa di Suspiria è infatti totale; di più, è programmatica. Salta la storia, saltano i personaggi: resta solo l’esile scheletro di una favola horror. Il solo scopo che il regista persegue nella lavorazione del film è, per sua stessa ammissione, “non fare un’inquadratura uguale all’altra”. La forma è ciò che interessa; il lavoro su di essa, incessante, la ragion d’essere dell’opera. E allora ecco il Technicolor sfavillante, degno di un film Disney; ecco un volume sonoro mai visto prima, con i Goblin più sinfonici ed ispirati che mai; ecco, soprattutto, una macchina da presa acrobatica, sempre sospesa in volo, mai limitata ad un diligente carrello, o ad un accademico campo e controcampo. La regia spinge sul pedale del gore, in un tripudio di morti violente mai meno che coreografiche.
Primo capitolo di quella che solo ora è diventata la Trilogia delle Madri, Suspiria si fregia del suo forsennato antinaturalismo e lo innalza a modo di intendere e praticare un genere. Da questo momento in poi, nel cinema di Argento, i confini tra thriller e horror non avranno più nessuna ragion d’essere.
Sequenza da ricordare: l’eccezionale incipit del film, venti minuti per attraversare il confine tra la realtà e l’orrore, e sprofondarci dentro.

Inferno (1980)
con Eleonora Giorgi, Leigh McCloskey, Irene Miracle, Gabriele Lavia, Sacha Pitoeff, Alida Valli.
Il seguito di Suspiria, scritto dal solo Argento, è segnato dal medesimo gesto registico. Distribuito nientemeno che dalla Fox - laddove il precedente aveva il credit della P.A.CS. -, il film vanta un’eccellente riuscita artistica, fregiandosi di contributi come quello di Keith Emerson alle tastiere e dell’ottimo Romano Albani - allievo del grande Luciano Tovoli di Suspiria - alla direzione delle luci.
Inferno funziona benissimo soprattutto nella prima ora, che dispiega una suggestiva e inarrestabile teoria di avvenimenti governati dalla sola ragione del Male. Film tutto giocato sulla discesa e sullo sprofondamento nelle viscere della Terra, vanta un sostanzioso gruppo di ammiratori che lo considera il capolavoro di Argento.
Lo spettatore in cerca di logica stia comunque alla larga; qui si tratta solo e unicamente di visioni.
Sequenza da ricordare: più che la singola scena, del film vale tutta l’atmosfera. Anche se il doppio omicidio di Eleonora Giorgi e Gabriele Lavia è messo in scena in modo magistrale.

Tenebre (1982)
con Giuliano Gemma, Anthony Franciosa, Daria Nicolodi, Veronica Lario, John Saxon, John Steiner.
Sfuggente e isterico ritorno al thrilling dell’autore. Distribuito dalla Titanus, scritto ancora dal solo Argento - nel giallo, non capitava dall’esordio -, è uno dei suoi film più violenti e suggestivi, corredato da una gelida fotografia di Luciano Tovoli. Le pulsioni horror - alle quali si aggiunge una sostanziosa e inconsueta dose di erotismo esplicito - spingono la narrazione al limite estremo; i virtuosismi linguistici - l’uso dell’acrobatica e spettacolare Louma, l’entrata in scena della steadycam - la sfondano definitivamente. Molto amato dai cultori dell’Argento più selvaggio, considerato un’inutile escursione pruriginosa da altri. Censuratissimo - memorabile il massacro di Veronica Lario, futura signora Berlusconi -, uscì all’epoca, come il precedente Inferno, con un penalizzante divieto ai minori di 18 anni.
Sequenza da ricordare: stavolta è un’unica, incredibile inquadratura, quella girata grazie al lungo braccio della macchina da presa Louma. L’occhio sadico del killer “avvolge” la superficie esterna di un’abitazione, in un abbraccio suadente e letale.

Phenomena (1984)
con Jennifer Connelly, Donald Pleasence, Daria Nicolodi, Dalila Di Lazzaro.
Impervia opera numero nove di Argento, è una delle sue maggiori, la più estrema nel mescolare i propri generi di elezione. Scritto insieme a Franco Ferrini - da qui, con poche eccezioni, collaboratore fisso dell’autore -, prodotto dallo stesso Argento, costituisce una riuscitissima architettura gotica, in cui gli echi di Suspiria - il collegio di ragazzine, l’amata Mitteleuropa - confluiscono e si fondono con un impianto thriller continuamente messo in discussione. È il film in cui il puro estro audiovisivo del regista viene fuori con maggior potenza, complice un sorprendente e inventivo “pastiche” musicale: Goblin, Bill Wyman, Simon Boswell, a cui si aggiungono gli splendidi affondi metal degli Iron Maiden e dei Motorhead. La mezz’ora finale non concede un attimo di tregua.
Compaiono qui due futuri fedeli della factory dell’autore: Michele Soavi all’aiuto - esordirà come regista di lì a tre anni col pregevole Deliria, sotto l’ala di Argento - e Sergio Stivaletti al trucco; mago del lattice e degli animatroni, quest’ultimo rileverà la direzione di M.D.C. - Maschera di cera (1996), lasciata vacante dall’improvvisa morte di Lucio Fulci.
Sequenza da ricordare: tra molte, sceglieremmo quella iniziale, sapientemente orchestrata in un desolato e suggestivo contesto ticinese.

Opera (1987)
con Cristina Marsillach, Ian Charleson, Daria Nicolodi, Urbano Barberini.
La decima opera dell’autore, co-prodotta insieme a Cecchi Gori e alla Rai - il budget è il più alto mai raggiunto fino a quel momento, dieci miliardi -, sembrerebbe costituire un ritorno negli argini del thriller orrorifico, almeno nei termini segnati dodici anni prima da Profondo rosso. In realtà, questo avviene solo in superficie; troppi sono gli elementi che l’autore si porta dietro dal delirante Phenomena - la giustizia vendicativa degli animali, lo spirito “panteistico” di alcune sequenze -, troppe le licenze narrative prese nel nome della pura suggestione visiva. La quale però funziona egregiamente: geniale la trovata cardine del film, versione perturbante del “contratto” regista - spettatore; ed effettivamente sontuoso il sottofinale in teatro, girato grazie ad un complesso marchingegno rotante che doveva permettere alla solita cinepresa acrobatica di “mimare” le soggettive dei corvi. C’è da dire, d’altro canto, che un colpevole in manette non lo si vedeva dal film d’esordio - dopo, erano state sempre morti violente -; ma le parentele col primo periodo si fermano qui. Anche le musiche, infatti, mutuano le suggestioni di Phenomena, sempre più film svolta della carriera di Argento: accanto a celeberrime arie, facenti ovviamente parte dello score diegetico, troviamo ancora i Goblin e Bill Wyman, mentre Simon Boswell è sostituito dalle sonorità ambient di Brian Eno; ad essi Argento aggiunge un paio di violentissimi pezzi metal (degli Steel Grave), ormai quasi di prammatica.
Opera viene ricordato dall’autore come il suo lavoro più faticoso; allo stress derivato dalle condizioni di ripresa, particolarmente precarie, si sommarono gli incidenti occorsi a vari componenti della troupe - lo stesso Argento fu ferito da un corvo - e le difficoltà derivate dal pessimo rapporto del regista con l’attrice protagonista, diretta infatti quasi sempre da Soavi, coordinatore della seconda unità.
Sequenza da ricordare: ancora un lungo brano di suspense, quello ambientato nell’abitazione della protagonista e in occasione del quale viene ucciso il personaggio di Daria Nicolodi.

Due occhi diabolici (1990), regia di D.A. e George Romero
Episodio “Il gatto nero”
con Harvey Keitel, Madeleine Potter, John Amos, Martin Balsam.
Poco rilevante parentesi americana dell’autore, che aveva conosciuto George Romero ai tempi della produzione di Zombi (1978). Il film consta di due episodi tratti dalla letteratura dell’amato Edgar Allan Poe. Il cineasta americano gira il suo “Valdemar” con la mano sinistra, e sul set si svilupperanno dei forti dissapori con lo stesso Argento. Quest’ultimo fa decisamente meglio con la sua metà - tratta da “Il gatto nero” -, anche grazie ad un allucinato Keitel. In ogni caso, vale più come prima esperienza statunitense, dove Argento rimarrà per realizzare il suo Trauma, di lì a due anni, che per motivi intrinseci all’operazione, di per sé poco riuscita.

Trauma (1992)
con Asia Argento, Christopher Rydell, Frederic Forrest, Piper Laurie.
Primo film di Argento con la figlia Asia (ne seguiranno altri tre), qui alle prese con un complesso personaggio di adolescente anoressica. Dopo la decisa incursione horror di Due occhi diabolici, l’autore torna al thriller con una sceneggiatura sviluppata insieme allo scrittore T.E.D. Klein, tratta da un soggetto di Argento, Ferrini e Gianni Romoli. Come ormai prevedibile, non mancano al film elementi irrazionali - del resto, la stessa diegesi affonda le mani nel paranormale -, ma qui la furia stilistica è tenuta maggiormente a bada, in favore di un approfondimento più attento delle psicologie dei personaggi. Tutto sommato, a parte un paio di scivoloni narrativi, la storia tiene; purtroppo, Trauma è il film che segna il passo, per la prima volta, in fatto di costruzione della suspense: vengono meno gli audaci, riconoscibili orditi thrilling argentiani, che lasciano il posto a sequenze più “contrattuali” e impersonali. È una cesura preoccupante, che non si rimarginerà più del tutto; ad illuminare i film successivi, nella migliore delle ipotesi, troveremo solo dei lampi dell’ispirazione di un tempo.

la Sindrome di Stendhal (1995)
con Asia Argento, Thomas Kretschmann, Marco Leonardi, Paolo Bonacelli, Luigi Diberti.
Il primo film targato Medusa dell’autore è uno dei suoi maggiormente ambiziosi: budget di sei miliardi, riprese agli Uffizi, contributi tecnici del calibro di Giuseppe Rotunno, Antonello Geleng, Sergio Stivaletti, ai quali si somma il ritorno alle musiche di un ottimo Ennio Morricone. L’autore consegna nelle mani della figlia uno dei personaggi più impegnativi della propria filmografia, sviluppato a partire da un’idea sua e del solito Franco Ferrini. La partenza del film è folgorante: di fronte all’ipnotica e suggestiva sequenza d’apertura, seguita dal primo, poderoso affondo thriller della storia, anche lo spettatore più smaliziato si convince del ritorno di Argento agli standard di qualche anno prima. Purtroppo si tratta di un bluff, almeno parzialmente; lo script dell’autore punta decisamente alto, e dopo un’altalenante passaggio centrale, ricco di nuovi spunti lasciati irrisolti, smarrisce completamente il bandolo proprio quando si tratta di tirar le fila dell’intricata matassa. Finale tristemente in discesa.
Ciò che resta lodevole è il “fegato” mostrato dell’autore: al momento attuale, accoglieremmo con grande piacere una pari dimostrazione di personalità.

il Fantasma dell’Opera (1998)
con Asia Argento, Julian Sands, Andrea di Stefano, Nadia Rinaldi.
Argento affronta il suo mito horror di sempre in una produzione non meno ambiziosa della precedente; ancora una volta, purtroppo, sbagliando il tiro. Pur forte del contributo alla sceneggiatura della penna affilata di Gerard Brach, quello che l’autore riesce a realizzare è solo un mediocre melò-horror, ricco di ambientazioni suggestive - ungheresi, per lo più - ma povero di emozioni e di suspense. Si rivela infelice anche la scelta degli attori - con Asia completamente fuori parte -, alcuni dei quali impegnati in personaggi involontariamente ridicoli. Film faticosissimo da realizzare, ha indotto il regista, nell’opera successiva, a tornare a lavorare in contesti più familiari, come quelli dell’amata Torino.

Nonhosonno (2000)
con Stefano Dionisi, Chiara Caselli, Gabriele Lavia, Rossella Falk.
Sbandieratissimo ed ennesimo ritorno al thriller dell’autore, dopo il cocente (e giustificato) flop del Fantasma. Sfinito dall’esperienza mitteleuropea del film precedente, probabilmente colpito dalla reazione negativa del popolo dei suoi fans, Argento si rigioca tutto su un solido giallo metropolitano, ideato e costruito - ancora con Ferrini - a partire da atmosfere ormai facenti parte a pieno titolo del suo repertorio. Ecco allora la collaudata, evocativa Torino - in una serie di location che vanno continuamente a citare quelle delle opere precedenti -, ecco i traumi infantili, ma soprattutto ecco quel certo modo di affrontare la costruzione della suspense, che rimane il tratto più distintivo del cineasta; in questo senso, a rendere manifeste le intenzioni del film basterebbe da sola la lunga e coinvolgente sequenza d’apertura, un quarto d’ora di grande cinema studiato a tavolino per scuotere da subito i nervi dello spettatore. Triste è accorgersi che si tratta di un fuoco di paglia: ciò che resta della potente dichiarazione d’intenti iniziale, man mano che si va avanti nella narrazione, è solo una facile patina splatter, mentre l’anima registica si diluisce all’interno di una vicenda sempre meno interessante. La trama di Nonhosonno si rivela così ordita da un Argento talmente preso dalla voglia di recuperare il terreno perduto col suo pubblico da aver congegnato una sorta di suo furbetto “bignami” stilistico: ma la mancanza di un’ispirazione autentica viene a galla ben presto, col risultato di aggiungere solo fastidio alla già cospicua noia dello spettatore.

il Cartaio (2003)
con Stefania Rocca, Liam Cunningham, Claudio Santamaria, Silvio Cuccino.
Sonoro e inaspettato passo falso dell’Argento giallo. L’autore e il suo degno sodale Ferrini concepiscono una vicenda fondata in partenza su un clamoroso “autogoal” narrativo: una sfida a videopoker. Per giunta, il regista pensa bene di accantonare le proprie ambizioni artistiche per adottare un tranquillo stile da fiction, solo a tratti “disturbato” da timidi e incerti affondi thrilling, come accade in occasione dell’omicidio di Silvio Muccino: ottimamente congegnata nel cuore di una suggestiva Roma notturna, la sequenza in questione mette nel giusto rilievo il paradosso di un’opera che poteva salvarsi solo furoreggiando in esterni, e invece non fa altro che rinchiudersi nei grigi ed anonimi uffici della Polizia, sottraendo alla narrazione qualsivoglia possibilità di progressione ritmica. L’Argento scrittore, ovviamente, non aiuta, pur riuscendo a non scendere sotto i livelli già infimi di Nonhosonno; se qui la situazione sembra ancora peggiore è solo a causa della sorprendente latitanza del regista, da questo lavoro in poi dato ufficialmente per scomparso.

la Terza madre (2007)
con Asia Argento, Christian Solimeno, Moran Atias, Udo Kier, Philippe Leroy.
Eravamo ormai tutti convinti che la cosiddetta “trilogia delle madri” fosse destinata a restare un dittico, e la cosa, a dirla tutta, non ci dispiaceva affatto: siamo così affezionati ai due venerandi capitoli costituenti la saga, datati 1977 e 1980, che sulla curiosità di veder completato il trittico aveva la meglio la paura che si potesse infangare il ricordo dei predecessori. Ebbene, i nostri timori si sono avverati. Argento firma una “Madre delle Lacrime” talmente posticcia e fuori luogo da lasciare stupefatto lo spettatore più disincantato; non fa solo un brutto film, ma riesce a gettare sulla storia un’ombra di ridicolo che va indietro di oltre trent’anni. Scordatevi le sperimentazioni formali di Suspiria e le aggressioni narrative di Inferno: la Terza madre ad esse sostituisce molte ovvietà stilistiche e una storia incredibilmente mal scritta. E poi, a livello puramente di genere: ma dov’è finito l’interesse di Argento per le sofisticate e inventive architetture suspense di un tempo? Qui la tensione è vacante almeno quanto la plausibilità narrativa. È vero, il regista torna ad affrontare l’horror con rinnovata passione, ed è un elemento che in prospettiva può far sperare: qui, per dirne una, il ricorso allo splatter è piacevolmente selvaggio, e l’approccio dell’autore alla vicenda giustamente libero da sofismi e polverosità di sorta. Ma è uno spirito che da solo non basta, e tutta la pellicola sta lì a testimoniarlo. L’esito del film diventa tanto più preoccupante nel momento in cui si profila, fin dall’incipit, la risolutezza di Argento nel volergli conferire una stringatezza narrativa da tipico “b-movie” che è obiettivo tutt’altro che agevole: nelle sue mani, infatti, la presunta agilità si trasforma rapidamente in sciatteria, la storia si sfalda in un mare di false piste, ognuna popolata da personaggi mai meno che fantasmatici. Tutto per arrivare ad un finale che si rivela congegnato clamorosamente in discesa, laddove sarebbe invece prescritto ad una vicenda del genere un poderoso climax emotivo e narrativo (Suspiria e Inferno insegnano). Insomma, l’ultimo film del Nostro vale più come deciso affrancamento dalla sua fase “televisiva” che per altro: è già qualcosa, ma date certe premesse siamo ben lungi dal poter anche solo ipotizzare i tempi per un’effettiva “rinascita” dell’autore, e la strada da percorrere, in ogni caso, ci sembra eccessivamente lunga e tortuosa.