il Cartaio

Passaggio di poteri
di Luca Perotti

 
  Italia, 2003
di Dario Argento, con Stefania Rocca, Liam Cunningham, Claudio Santamaria, Fiore Argento


Qualcosa ancora rimane nel cinema del Dario Argento autore/scrutatore dei meandri del perturbante. Come una giacenza di sguardo che ancora riesce ad agitare quei demoni passati ormai riluttanti ad abbandonare il loro stato di latenza. E che il regista si affanna a risvegliare ma senza quella disobbedienza (cinematograficamente) incivile che scaraventava i suoi adepti giù a precipizio nel subconscio delle ossessioni più sgarbate e grandguignolesche.
Qualcosa invece sembra essere svanito del tutto o aver assunto una consistenza eccessivamente cedevole, una sorta di prevedibile didascalismo.
Il cinema di Dario Argento ha smarrito l’Es che avvinghiava i suoi film, che li rendeva succubi di un’istintualità perversa e turpe, che metteva in scena il dolore e la paura del dolore riducendo ai minimi termini il divario tra l’occhio dello spettatore e l’oggetto della visione.
Anche se, ancora ne il Cartaio, il suo cinema rimane la caccia ossessiva di una soggettiva voluttuosa, lo spostamento nervoso verso un punto di vista che riesca ad unire la vittima e il carnefice (e l’oggetto e il soggetto dello sguardo – in una moltiplicazione dello stesso) in un orgasmo maniacale, o meglio in una cerimonia istantanea ed essenziale di morte.
È ancora disgiunto e irregolare il cinema di Dario Argento; ed è ancora efficacemente riconoscibile tra mille per la sua volontaria grettezza estetica, per i dialoghi brutalmente stranianti ma senza quella lascivia che rendeva i suoi film dei tragitti pericolosi, violenti e disarticolati.
Anche ne Il cartaio il meccanismo poliziesco è costruito e decostruito ma con un’intermittenza più flemmatica; ed è nei momenti di disattivazione dal genere che vengono a mancare quei tormenti ansiosi, quel gioco diabolico e sfrontato con le pulsioni più profonde del pubblico, ormai divenute eccessivamente intorpidite.
In Dario Argento si è diluita quell’idea di cinema della disgregazione e dello scollamento che rendeva i suoi film un intreccio di segmenti terrificanti che negavano a tutti il privilegio dell’equilibrio e della forza di gravità.
Non c’è più quella curiosità degenerata che muoverebbe lo sguardo di un anticristo moccioso e indisciplinato; al suo posto Dario Argento ha scelto di ricompattarsi attorno a un nucleo narrativo (esile o forte non importa) e relegare ad un ruolo subalterno i suoi stilemi più scorbutici, quelli che trovavano linfa e vigore negli elementi collaterali e che costituivano la negazione radicale di qualsiasi fluidità.
Ma nessuno come lui, in Italia, riesce a restituire l’alone minaccioso e maligno di una città in notturna; da nessun’altro se non da lui è lecito aspettarsi l’immersione nelle profondità vertiginose di un buco nero ignoto in cui augurarsi di trovare un nuovo feticismo, una nuova inesattezza mentale che abbiamo sempre ignorato.
Ne il Cartaio sembra essere la messa in visione della morte e, di nuovo, del dolore filtrati dalla virtualità della webcam: un auspicio teorico, una nuova ossessione, un nuovo feticismo forse. Ma globalizzato e non più carnale, non più rabbiosamente percettibile.
Adesso è l’ “Io” ad indicare la via a Dario Argento, con tutti i suoi compromessi e le sue accomodazioni. Non più l’Es. Ed è tenendo conto di questo passaggio di poteri e allontanando antiche aspettative che il Cartaio può considerarsi un film riuscito. In attesa che un’insana schizofrenia riprenda al più presto il sopravvento.