Thirteen
L’equazione del disagio
di Stefano Finesi

 
  id., Usa, 2003
di Catherine Hardwicke, con Evan Rachel Wood, Nikki Reed, Holly Hunter, Jeremy Sisto


Già implicita nel racconto di un’età che segna i primi, incerti passi dell’adolescenza, la sensazione di trovarsi davanti all’insistente esplorazione di un confine si moltiplica in Thirteen fino a catalizzarne le più profonde pulsioni narrative. Non è solo la delicata frontiera tra minore e maggiore età a balzare agli occhi, ma quella tra morale e immorale, lecito e illecito, amicizia e competizione, quella che marca l’appartenenza ferrea a un gruppo o a una classe sociale, per non parlare di un equilibrismo continuo dei ruoli (ruoli confusi o capovolti soprattutto tra madre e figlia, con la madre ex-hippie tossica di volta in volta complice o autoritaria).
La questione del confine e della sua labilità, all’interno di un tessuto famigliare e psicologico a brandelli, investe però anche la rappresentazione, dando vita a una confezione che evidentemente fa i salti mortali per accalappiare un pubblico di giovanissimi aspirando nel frattempo a far loro la ramanzina: in Thirteen si finisce insomma per avere l’impressione di assistere a una puntata di Melrose Place precipitata in uno sgranato cinema verità, a una messinscena clipparola che nel finale, improvvisamente, osa confrontarsi con il melodramma. L’incapacità di mettere a fuoco scelte formali precise crea una specie di fumante calderone delle (presunte) perversioni in cui si lancia la giovane protagonista, mettendo colpevolmente sullo stesso piano questioni serie e ininfluenti, spaccio di droga e libertà sessuale, anoressia e piercing, con l’effetto incrociato di banalizzare le prime e criminalizzare le seconde.
La questione fondamentale, ancora una volta, è come porre le domande e come (e se, ovviamente) dare le risposte. Nell’interrogazione collettiva del cinema sulla gioventù americana allo sbando, interrogazione più o meno compiaciuta, partecipe o entomologica che sia, abbiamo assistito a una gamma di sguardi ampia e altalenante, da quello sinceramente e disperatamente accorato di Harmony Korine (Gummo) o del David Gordon Greene di George Washington, entrambi non a caso mai distribuiti nelle sale italiane, a quello fotografico e pseudodistaccato di Larry Clark, fino a quello strabico del Gus Van Sant di Elephant, che, forse in modo non del tutto consapevole, è finito per scivolare nella pericolosa equazione del videogioco violento+documentario nazista+omosessualità=strage scolastica. Un’equazione simile la ritroviamo quindi anche in Thirteen, malgrado l’impianto narrativo più tradizionale e l’evidente investimento emotivo della giovanissima sceneggiatrice e coprotagonista Nikki Reed ne smussi lo schematismo di base: l’adolescente traviata ha per inevitabile teatro della sua deriva una madre poco equilibrata, un padre assente e grottesco, nonché una scuola devastante dove si preparano le ricerche su Jennifer Lopez. E tanto basta.
La strategia più accettabile, senza voler dare lezioni di morale, ma comunque azzardando una ramanzina a chi pretende a sua volta di impartirla, sarebbe quella di rinunciare alle risposte, registrando freddamente un dato di fatto senza elemosinare compassione, oppure quella di mettersi di buona lena a scavare, come il Michael Moore di Bowling a Colombine, nell’enorme, vischiosa massa di detriti (sociali, politici e culturali) che del disagio giovanile determinano il contesto.
Ma anche per il cinema adolescenziale è probabilmente sempre più difficile passare all’età adulta.