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Usa, 2003 di Catherine Hardwicke, con Evan Rachel Wood, Nikki Reed, Holly Hunter, Jeremy Sisto Già implicita nel racconto di unetà che segna i primi, incerti passi delladolescenza, la sensazione di trovarsi davanti allinsistente esplorazione di un confine si moltiplica in Thirteen fino a catalizzarne le più profonde pulsioni narrative. Non è solo la delicata frontiera tra minore e maggiore età a balzare agli occhi, ma quella tra morale e immorale, lecito e illecito, amicizia e competizione, quella che marca lappartenenza ferrea a un gruppo o a una classe sociale, per non parlare di un equilibrismo continuo dei ruoli (ruoli confusi o capovolti soprattutto tra madre e figlia, con la madre ex-hippie tossica di volta in volta complice o autoritaria). La questione del confine e della sua labilità, allinterno di un tessuto famigliare e psicologico a brandelli, investe però anche la rappresentazione, dando vita a una confezione che evidentemente fa i salti mortali per accalappiare un pubblico di giovanissimi aspirando nel frattempo a far loro la ramanzina: in Thirteen si finisce insomma per avere limpressione di assistere a una puntata di Melrose Place precipitata in uno sgranato cinema verità, a una messinscena clipparola che nel finale, improvvisamente, osa confrontarsi con il melodramma. Lincapacità di mettere a fuoco scelte formali precise crea una specie di fumante calderone delle (presunte) perversioni in cui si lancia la giovane protagonista, mettendo colpevolmente sullo stesso piano questioni serie e ininfluenti, spaccio di droga e libertà sessuale, anoressia e piercing, con leffetto incrociato di banalizzare le prime e criminalizzare le seconde. La questione fondamentale, ancora una volta, è come porre le domande e come (e se, ovviamente) dare le risposte. Nellinterrogazione collettiva del cinema sulla gioventù americana allo sbando, interrogazione più o meno compiaciuta, partecipe o entomologica che sia, abbiamo assistito a una gamma di sguardi ampia e altalenante, da quello sinceramente e disperatamente accorato di Harmony Korine (Gummo) o del David Gordon Greene di George Washington, entrambi non a caso mai distribuiti nelle sale italiane, a quello fotografico e pseudodistaccato di Larry Clark, fino a quello strabico del Gus Van Sant di Elephant, che, forse in modo non del tutto consapevole, è finito per scivolare nella pericolosa equazione del videogioco violento+documentario nazista+omosessualità=strage scolastica. Unequazione simile la ritroviamo quindi anche in Thirteen, malgrado limpianto narrativo più tradizionale e levidente investimento emotivo della giovanissima sceneggiatrice e coprotagonista Nikki Reed ne smussi lo schematismo di base: ladolescente traviata ha per inevitabile teatro della sua deriva una madre poco equilibrata, un padre assente e grottesco, nonché una scuola devastante dove si preparano le ricerche su Jennifer Lopez. E tanto basta. La strategia più accettabile, senza voler dare lezioni di morale, ma comunque azzardando una ramanzina a chi pretende a sua volta di impartirla, sarebbe quella di rinunciare alle risposte, registrando freddamente un dato di fatto senza elemosinare compassione, oppure quella di mettersi di buona lena a scavare, come il Michael Moore di Bowling a Colombine, nellenorme, vischiosa massa di detriti (sociali, politici e culturali) che del disagio giovanile determinano il contesto. Ma anche per il cinema adolescenziale è probabilmente sempre più difficile passare alletà adulta. |