Celebrity Death Match!
Nella sequenza finale di Bowling a Columbine, la
silhouette goffa e cicciona di Michael Moore tallona quella altrettanto
inadatta ad un decoroso corpo a corpo di Charlton Heston che, vecchio
e affannato, caracolla sulle sue gambe “alzheimeriane” alla
ricerca di un rifugio.
Un duello al rallentatore tra due corpi esteticamente improbabili, meritevoli
di una collocazione più opportuna, e soprattutto giocato nel
più totale controsenso in quanto ha luogo nella villa stessa
del famoso attore americano, costretto perciò ad una fuga paradossale
da un intruso che lo ha appena umiliato, ne ha violato la privacy, lo
ha accusato al di là di ogni oggettivo senso della realtà
di essere un responsabile indiretto della morte di un bambino di sei
anni, in quanto presidente della NRA, la National Rifle Association
che difende e propaganda il diritto dei cittadini americani al possesso
di armi da fuoco. Un giornalista, sfacciato e fazioso, che ha fin lì
sciorinato statistiche e accuse ergendosi a paladino della verità
buona e giusta, tende un agguato a domicilio a colui che, in virtù
della progressione narrativa del film, incarna la figura del cattivo,
perseguitato con sete di vendetta e costretto ad un duello inaspettato
da chi sembrava dapprima un ospite gradito e curioso per poi rivelarsi
una spietata creatura senza scrupoli.
l documentario si mescola con la finzione infarcendosi sia di elementi
patetici – Moore che mostra a Heston la foto del bambino morto
per poi lasciarla appoggiata ad una colonna dopo il congedo dell’attore
–, sia di venature grottesche.
Pur nella volontà di una denuncia aggressiva e puntuale, nel
contesto documentaristico scelto da Moore, sarebbe usuale il mantenimento
di una neutralità critica dall’oggetto, una sorta di concessione
di un margine di dubbio.
La distanza viene invece brutalmente azzerata sia fisicamente, sia ontologicamente,
in quanto in quei precisi istanti Bowling a Columbine
si è definitivamente trasformato in una strana forma di fiction
ibrida.
Il fulcro del paradosso sta nell’attrito tra le varie dimensioni
che la figura di Heston viene ad assumere nei momenti del singolare
scontro.
Una delle figure virili per eccellenza del cinema americano, spesso
interprete di personaggi vigorosi e dalla parte del giusto, Heston,
a sua insaputa, diviene il capro espiatorio di una montatura premeditata:
la finta complicità di Moore, che mostra la sua tessera di membro
appartenente al NRA, permette alla mdp di registrare le idee di Heston
sulla violenza negli Stati Uniti, intuirne i raccapriccianti pregiudizi
razziali; mentre il pedinamento ne mette a nudo la decadenza fisica
e la grottesca vulnerabilità, estranea ad un’icona così
carismatica. L’american hero diventa doppiamente american
villain: sia nel contesto generale della denuncia lanciata da Moore,
sia secondo le coordinate della fiction ricostruita internamente.Un
villain puro, che non ha nessuna possibilità di liberarsi dell’etichetta
nemmeno a film finito. La stella hollywoodiana collassa, ingoiata dalla
penombra di una delle stanze della sua villa. La sconfitta risulta ancora
più marcata in quanto l’aggressione dialettica non permette
a Heston l’uso delle armi per legittima difesa contro qualcuno
venuto in casa sua con intenzioni tutt’altro che amichevoli. La
stella hollywoodiana diviene quindi simbolicamente impotente anche nel
suo ruolo parallelo di paladino dei diritti dei cittadini bianchi.
Anomalie di un documentario
L’impietosa resa dei conti giunge a conclusione di un tragitto
che ha visto Michael Moore scaraventarsi con il proprio corpo sul campo
di battaglia tra i resti da lui stesso generati.
A partire da un fatto di cronaca – l’uccisione di tredici
persone alla Columbine High School il 20 Aprile del 1999 – Moore
lancia una bomba sui capisaldi della cultura americana per poi procedere
ad un sopralluogo sulle macerie ed infine ingaggiare un incontro ravvicinato
con chi è stato scelto come simbolo di una meschinità
inaccettabile. Una vera e propria tattica di guerra con tanto di ostaggio
e tortura. Bowling a Columbine contiene tutti gli ingredienti
di un reportage: le interviste, la ricerca sul campo, le statistiche,
le immagini di repertorio; ingredienti miscelati con un senso spericolato
della provocazione e del bluff per arrivare al nocciolo della questione
passando, sì, per il capo d’accusa principale,ovvero la
facilità con cui in America è possibile entrare in possesso
di un’arma da fuoco, ma penetrando ad un livello più profondo
per stanare e destabilizzare i fattori di controllo che rendono gli
Stati Uniti il paese dove ogni anno 11.000 persone rimangono uccise
per ferite prodotte, per l’appunto, da armi da fuoco. Per avallare
le sue congetture Moore si cala nei panni di attore-provocatore. Il
suo è un corpo agente, una macchina da presa umana che travalica
qualsiasi figura di intermediazione in un continuo approdare in spazi
cruciali, sollecitando le persone coinvolte e tenendosi costantemente
in contatto diretto con lo spettatore che viene trascinato lungo un
itinerario dapprima confuso poi sempre più nitido.
Dietro la facciata da documentario, Moore crea in realtà un film
che attraversa diversi modelli narrativi: il road-movie, il genere processuale,
l’Whodunit, e si struttura come un film bellico in cui
l’eroe si getta allo sbaraglio contro il nemico, armandosi dello
strumento romanticamente e retoricamente incisivo del cinema-verité.
Per avvalorare le sue tesi, Moore non esita ad una strategia per certi
versi terroristica e violenta in quanto non si limita ad introdurre
ipotesi: l’accusa contro la malsana mentalità americana
è simile al lancio di una bomba nel cuore della cultura e della
storia senza né eufemismi né timori reverenziali. Per
controbattere la cultura della legittima difesa quale deterrente contro
la violenza, Moore concepisce un documentario rancoroso, che fa della
malafede e del populismo le chiavi per scassinare le cassaforti del
non-detto.
Moore capisce che una semplice constatazione oggettiva degli
avvenimenti di cronaca e un riassunto degli eventi storici più
importanti sarebbe uno sterile pour-parlez tra illuminati sfigati
e decide di usare con consapevole sfacciataggine l’arma della
malafede più bieca con cui affrontare i misfatti a tu per tu.
La paura e la retorica: occhio per occhio
La furia iconoclasta di Moore ricerca fondamentalmente lo squilibrio,
a partire dal rifiuto di una tipologia di documentario/reportage che,
pur non ammettendolo, è abitualmente inibita dalla necessità
etica della par conditio. Per scuotere le coscienze degli spettatori
che Moore sa essere quasi totalmente divisi in due fazioni: coloro che
entrano al cinema già d’accordo con lui per partito preso
e coloro che probabilmente al cinema nemmeno ci entreranno ma che d’accordo
con lui non sono, e sempre per partito preso, il regista scaccia via
qualsiasi intermediario tra sé e il suo assioma e punta a suscitare
un’indignazione faziosa, una costernazione quasi caricaturale
di marca Stoniana.
Il motivo di questa scelta è in sintonia con la mentalità
americana stessa.
Il possesso legittimo di armi da fuoco, la pena di morte come sacra
istituzione che nessun presidente, soprattutto per motivi elettorali,
si sognerebbe di mettere in discussione, sono fattori di reazione semplicistica
ad una situazione di cui non vengono ricercati i reali motivi scatenanti.Le
equazioni sono immediate: in America c’è un clima di violenza,
quindi ogni cittadino ha il diritto di difendersi anche uccidendo a
sua volta; lo Stato ha il diritto di porre fine alla vita di un uomo
che ha, a sua volta, ucciso. Moore risponde a questa mentalità
di azione/reazione con una reazione di segno opposto, altrettanto populista
e altrettanto, superficialmente, faziosa scendendo semplicemente sullo
stesso terreno dialettico, usando le stesse armi contro gli assunti
che vuole screditare.
L’umiliazione esplicita di Charlton Heston assomiglia allo spostamento
di responsabilità verso un capro espiatorio simile a quello che
ha visto Marylin Manson essere considerato complice e responsabile delle
smanie diabolico-omicide di molti teenager. Ovviamente si tratta di
una forzatura patetica, probabilmente di un monito volontariamente disonesto
perché arriva dopo che il punto chiave della faccenda è
stato individuato e analizzato.
Il cinema politico post-11 settembre e sulla scia dell’antiamericanismo,
presente anche nell’eterogeneità degli omonimi cortometraggi
sugli attentati alle torri gemelle, sembra aver scelto definitivamente
la sua via dopo aver subodorato la presenza di un pericolo tangibile.
La radice comune su cui convergono gli sguardi di Moore, Loach, Gitai,
ecc. è, inequivocabilmente, la responsabilità dell’influenza
dei media. I corti dell’11 settembre non sono altro che una reazione
sintomatica, un’espulsione doverosa delle tossine accumulate a
causa di un’informazione oppressiva e monodirezionata. Come Ken
Loach approfitta della concordanza di date per sparare a zero sulla
politica intimidatoria e coercitiva attuata dagli Stati Uniti –
in Cile nel caso specifico – Moore cita numerosi episodi di violenza
barbarica compiuta per volontà o peggio ancora per negligenza
(il bombardamento di un ospedale in Sudan) con il rischio calcolato
di uscire fuori tema, sbagliare bersaglio, fare di tutta l’erba
un fascio. I media finiscono sotto accusa come ingranaggio cruciale
di un sistema più grande guidato da oscure componenti economiche
e vincolato alle leggi del consumismo più banale e torbido.
Un sistema che continua ad essere sfiorato dalla denuncia, intuito,
percepito, ma mai in realtà veramente assimilato con consapevolezza.
Moore afferma, senza ambiguità, che non è il semplice
possesso delle armi a determinare il clima da Far West vigente in America,
e a permettere a teenager disadattati di impugnare un fucile contro
i coetanei.Si tratta altresì di un lavaggio del cervello, costante,
senza freni, studiato per inculcare nella testa delle persone la paura
dell’altro, semplificando la complessità di discorsi sociali
ed economici, le svariate variabili in gioco, dividendole e annullandole
come in una espressione aritmetica per giungere alla soluzione più
comoda e praticabile. La paura diventa il fattore di controllo che muove
opinioni e capitali. Una
tragedia di dimensioni simboliche e umane inusitate come quella delle
Twin Towers diviene una gustosa, macabra, auspicata giustificazione
di una politica che la fine della guerra fredda aveva destinato ad un
sicuro declino. Bowling a Columbine è emblematico
nella sua forma eversiva e contemporanea di cinema politico privo di
filtri ossequiosi. Per dire qualcosa di sinistra è necessario
dire anche qualcosa di sinistro. La malafede e la faziosità diventano
dunque la replica al perbenismo idiota che devia l’attenzione
verso le canzoni di Marylin Manson Perché, alla fine, il bombardamento
monotematico, frettoloso, sloganistico delle informazioni non influenza
tanto le opinioni ma inibisce qualsiasi visione alternativa anche in
chi non ne sarebbe predisposto. Alla fine, c’è veramente
chi, in assenza di un valido approfondimento, finisce inevitabilmente
per dare la colpa alla musica rock, o a qualche altra causa generica.
La ricerca del capro espiatorio più improbabile non è
pratica comune solamente in America; fa parte di una mentalità
a domino che crede nel rimedio più ipocrita come deterrente;
che soffre della psicosi del complotto, che è figlia di uno squilibrio
di punti di vista: da una parte il gioco a carte scoperte dei manipolatori
dell’informazione che si impegnano affinché il messaggio
rimanga sostanzialmente indeterminato e privo di spunti di analisi;
dall’altra l’impeto sincero ma buonista di contestatori
illuminati ma deboli, imbrigliati dal compromesso, dal rispetto per
le opinioni altrui anche quando tali opinioni sono palesemente criminose.
Moore individua con puntualità ed esattezza i punti chiave della
delicata questione, ma sceglie anche la via dell’esibizionismo,
andando ad umiliare Charlton Heston con la medesima sfacciataggine con
la quale quest’ultimo si recò nella cittadina che ospita
il liceo Columbine all’indomani della tragedia per difendere i
diritti dei possessori d’armi. È la strategia dell’inganno
e della faziosità che confida nella dimenticanza e nella complicità
della macroinformazione.
Come in un negoziato, si tratta di chiedere il più possibile
per ottenere il minimo indispensabile. L’unica via perseguibile
anche dall’altra parte della barricata è provocare un’emorragia
di indignazione anche a scapito della buona fede. |