Elephant
Doppia visione
di Adriano Ercolani e Adriano Marenco

 
 
Inferno: geometrie sul vuoto
di Adriano Ercolani
Elephant, Usa, 2003
di Gus Van Sant, con Matt Malloy, Timothy Bottoms e attori non professionisti.


- Ho appena finito la lezione di educazione fisica. Mi cambio nello spogliatoio femminile, senza parlare con nessuna delle mie presunte compagne di scuola. Di fretta e furia vado in biblioteca, dove mi aspetta il nuovo turno come assistente. Inizio a sistemare un carrello di libri nella sezione di saggistica. Entra uno studente che devo aver visto in giro, ma che non conosco quasi, a cui non ho mai pensato. Sembra vestito come un marine, e imbraccia un mitragliatore. Mi spara. Muoio sul colpo.

- Ho passato la mattinata a fare fotografie nel parco, perché devo finire il mio portfolio, stampare il rullino e scegliere i migliori scatti da presentare. Arrivo a scuola, e vado subito nel laboratorio di sviluppo a lavorare. Finito di sviluppare, scelgo una foto che ho fatto proprio poche ore fa ad una coppia di punk che ho incontrato questa mattina a due passi da scuola. Vado in biblioteca per esporla. Entra un ragazzo che mi lascia indifferente. Uccide una ragazza di fronte a me, poi mi spara. Muoio sul colpo.

- Come ogni giorno, ci avviamo verso mensa svogliate e civettuole, con i nostri abiti firmati e la nostra aria un po’ snob. Chiacchieriamo del più e del meno, come al solito, e come al solito di ragazzi. Finito di piluccare la solita insalatina, ci allontaniamo dalla moltitudine di ragazzi intorno a noi, a cui non dedichiamo la minima attenzione. Ci dirigiamo ciarlando fino al bagno delle donne, dove vomitiamo quello che abbiamo appena ingerito. Entra un ragazzo, ci sorride e ci spara. Moriamo sul colpo.

- Vado a scuola con il mio compagno di sempre. Entriamo, nessuno ci nota o quasi. Ci fermiamo nell’atrio per qualche secondo, prima di iniziare il nostro giro: la prima tappa è la biblioteca. Entro, ci sono alcuni studenti, iniziamo a sparargli. Qualcuno cade, altri riescono a scappare. Io e il mio amico ci dividiamo. Giro per le stanze e i corridoi, sparo a chi mi capita sotto tiro. Dopo qualche minuto ci rivediamo in sala mensa, il mio amico sta parlando di non so cosa, sparo pure a lui. Poi sento dei rumori, mi guardo in giro finché non trovo una coppietta che si era nascosta nella stanza frigorifera. Gli punto il mitragliatore addosso, loro mi implorano di risparmiarli. Inizio a canticchiare una cantilena mentre prendo bene la mira…

Elephant non racconta. Non ha nulla da raccontare, e soprattutto non vuole farlo. La narrazione drammatica, a differenza di quella filmica, si annulla, sceglie di non essere drammatica, ma soltanto di mostrare. Elephant dispone nello spazio i corpi di vittime e carnefici. Incrocia piani temporali, delinea percorsi in mezzo al nulla: gli ambienti sono neutri ed assolutamente asettici, gli esseri umani sembrano automi deboli ed estraniati. La visione che Van Sant ci propone è un inferno gelido, rarefatto ed impersonale, in cui l’assenza di calore umano e di sentimenti viene accentuata proprio dalla presenza ossessiva di giovani, di corpi e menti che dovrebbero essere “vivi” ed invece non lo sono. Per mostrare allo spettatore questa mancanza, questo vuoto, il regista sceglie un discorso estetico precisissimo e fortemente espressivo, al punto di risultare in alcuni momenti addirittura manieristico. La macchina da presa non si nasconde, anzi incornicia l’assenza di tutto il resto in interminabili ed estenuanti steadycam, che seguono ragazzi e percorsi senza meta. Queste persone vagano senza uno scopo preciso (o comunque “forte”), si incrociano e si trovano senza motivo; alla fine muoiono sempre senza motivo, e sembra che davvero non potrebbe essere altrimenti. Chi cadrà sotto i proiettili e chi sparerà viene posto esattamente sullo stesso piano, o meglio viene immerso nella stessa dimensione livida di un non-universo giovanile, vuoto ed immotivabile. Gli infiniti piano-sequenza che compongono il film danno sul serio la sensazione dell’incedere lento ed ineluttabile di un elefante, un pachiderma ottuso che annienta la ragione ed il sentimento umano. Opera distaccata, gelida, disturbante, quest’ultimo lungometraggio di Van Sant (girato originariamente per la televisione HBO) spiazza lo spettatore per il fatto di trovare, grazie ad uno specifico cinematografico lucido e coerente come poche altre volte nei film del cineasta, un colpevole che non ha la forma ed il volto di un essere umano. In Elephant è davvero il sistema di valori in cui l’evento si trova ad accadere che viene messo sotto accusa; e non attraverso l’arringa moralistica di una sceneggiatura a tema, ma grazie ad una messa in scena che rende in tutto e per tutto il senso di vacuità in cui la gioventù americana versa. Non ci troviamo di fronte ad una pellicola partecipe e dolorosa, come ci saremmo facilmente aspettati, ma ad un tentativo di documentazione asettico e allo stesso tempo fortemente penetrante: non la storia di una tragedia, ma la rappresentazione di un mondo in cui regna il caos della mente. Quello che accade viene rappresentato in maniera del tutto naturalistica, normale, perché è normale che in simili condizioni esistenziali regni il disordine, l’irrazionalità, l’orrore. La grossa coerenza interna, la spiazzante specificità di Elephant è che questo stato non viene reso da parole, sguardi, musica o altro, ma soltanto dalla macchina da presa: la dilatazione/desolazione amorale che avvolge il film è totalmente data proprio dal film stesso, dal suo essere costruito in quel modo e solo in quel modo. Non vi sono cambi di ritmo, scene di pathos, immagini di violenza e morte: c’è soltanto il lento, inarrestabile incedere del vuoto, che cattura ogni personaggio e lo trascina con sé.
Il motivo fondante di Elephant è dunque la scelta estetica del suo concepimento: Gus Van Sant costruisce uno scheletro rigorosissimo ed elegante, che trasforma in cinema di alto contenuto visivo un’assenza concettuale e morale che inquieta, intimidisce, e può lasciare incredulo e insoddisfatto lo spettatore. Nella pellicola non c’è messaggio morale, non c’è volontà di insegnamento, non c’è intento educativo o monito di alcun tipo. L’opera è una cornice, un pacco regalo in cui dentro regna il nulla. Ed è probabilmente questa la visione più spaventosa che il regista e la sua opera potevano offrirci.
 

Elephant nel quadro dell’ultimo livello
di Adriano Marenco

Il quotidiano di una scuola modello, quotidiano girato colla visuale soggettiva in piano sequenza di un videogioco. Visuale che comprende la nuca dell’elefante compresso nel corpo quotidiano dell’istituzione modello, visuale che attraversa i livelli fino a caricare mirare PUM passante a gambe all’aria.
Il quotidiano è formato da quadri che si rincorrono collegati da corridoi, il quotidiano è come quando càpiti nella stessa zona e trovi animazioni a fare e dire le stesse cose colle stesse facce anche se ci giri intorno. Brandelli di informazioni insensate, le stesse di ogni giorno.
Anche se sali di livello.
Anche se voli come una Colomba.
La normalità dei ragazzi, le passioni, il genio, vaffanculo Elisa, l’angelo, l’amicizia e l’orrore scalpitante nel bagno per vomitare per raccontarsi come le più belle della scuola, l’amore e la dolcezza prima di accendere il display della mattanza.
L’angelo obiettivo.
L’angelo biondo col padre sbronzo.
L’angelo nero impassibile che aiuta una vita a vivere e poi segue, come telecomandato, il rumore fino a diventare obiettivo freddamente centrato.
La ragazza biblioteca topo di se stessa rosicchiata dalla sua stessa brutta faccia.
La coppia belloccia nascosta in fondo all’ultimo quadro dell’ultimo livello insieme ai corpi già macellati dei vitelli di Columbine.
La libertà americana di acquistare che entra scortata dal postino. Ragazzi c’è un pacco per voi, non siete andati a scuola eh? Beati voi. Sì ma poi a scuola ci andiamo eccome. Ci andiamo a trasformare la nostra realtà coi corridoi che s’inseguono da un quadro all’altro, ci andiamo a sparare alle animazioni iperrealistiche dei passanti, a metterli a gambe all’aria, ci andiamo a fare un casino. Ci andiamo a terminarlo il gioco che si nasconde nel quadro quotidiano.

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