Tutto o niente
Tutti dicono “Fuck You”
di Luca Perotti

 
  All or nothing, GB, 2002
di Mike Leigh, con Timothy Spall, Lesley Manville, James Corden

I proletari sprecano solamente spazio, vivono nell’inferno e hanno attacchi di cuore.
Con un melodramma del quotidiano che, dapprima corale, si incanala gradualmente nel focolare striminzito di una sola famiglia, Mike Leigh presenta la sua ricerca sul campo, la sua indagine sociologica compiuta nella fatiscente periferia di Hackney, a nord di Londra.
A differenza del piglio freddo e diabolico di un Ken Loach, Leigh confeziona una martellante ostentazione del profondo disagio sociale e delle sue ripercussioni in termini di strafottenza o di silenziosa remissività che nasconde un dolore indicibile.
Se Ken Loach fluidifica la denuncia sociale in un cinismo misurato, in una pacatezza stilistica oggettivante e neutrale che mira a suscitare una razionale indignazione, Leigh adopera la potenzialità del mezzo e del genere per accendere i toni e arroventare le corde emozionali fino a toccare livelli di autentica asfissia narrativa.
Spaccato in due parti da una tragedia sfiorata, il film è modulato su un climax coercitivo: un pressing incessante che stringe in una morsa i personaggi seguito da uno spianamento drammatico susseguente all’attacco di cuore che colpisce il giovane Rory. L’espansione e la distensione del dramma risultano conformi all’episodio traumatico che spacca in due la storia; il film sembra concepito col ritmo forsennato che conduce ad un infarto, e si avvia al suo epilogo analogamente ad un periodo di convalescenza. La disgrazia sfiorata è il punto di saturazione che porta in superficie la consapevolezza di un processo di dissoluzione fin lì inconsapevolmente rimosso. L’apparente stasi del dramma che segue il trauma dell’infarto, tuttavia, contrasta vividamente con la messa in luce della crisi buia di una famiglia le cui dinamiche di comunicazione sono sempre deviate altrove dall’alienazione, dalla rabbia repressa, dal fatalismo accondiscendente e un po’ scemo del padre Phil (un sommo, meraviglioso Timothy Spall). Che nel momento del boato drammatico, nell’istante di percezione della crisi stessa non ha nulla di meglio da proporre che una vacanza a Disneyworld in Florida.
Il capitalismo ha proprio stravinto, accidenti a lui!
Riuniti al capezzale del figlio, nell’inquadratura conclusiva, il peggio è passato, la morte di Rory scongiurata, una parvenza di comunicazione sembra essere ristabilita; ma Leigh indugia sul volto della figlia, Rachel, anche lei obesa, depressa, taciturna e sconfitta: i livelli di ipertensione stanno per rialzarsi, una nuovo tracollo è dietro l’angolo e mai come in quel momento l’impotenza di una classe derelitta assume contorni più nitidi e brutali.
Fino al momento del collasso, il film è un susseguirsi di momenti di alta tensione che rimbombano assieme ai sonori “vaffanculo” tra i palazzoni soffocanti di Hackney, quartiere isolato e squallido, impermeabile al mondo esterno con cui ogni connessione è improponibile. Solamente Phil, che di professione fa il tassista, porta ogni tanto “notizie dal sedile di dietro” carpite dai suoi clienti, ma sono racconti smozzicati e inutili, dei non-dialoghi tra persone che guardano ognuna in direzione diversa. Non perché il legame si sia sfaldato per episodi tangibili, ma in virtù di un lasciarsi andare involontario, conseguente all’azione invalidante e spersonalizzante degli spazi, del degrado esistenziale, della monotonia.
L’umanità di Tutto o niente è un’umanità minuscola, con l’animo desolato, impercettibile per la Storia e per la cronaca. Mike Leigh ne mostra l’intima sgraziataggine con una petulanza ai limiti dello sgarbo, assumendo la prospettiva del melò più vibrante fino a sfondare per eccesso la tela che separa la misura dal patetismo ruffiano. Del melò, Tutto o niente rispetta il senso di prigionia degli individui, la spinta verso la tragedia, il senso dell’impossibilità della fuga e soprattutto l’angoscia della persecuzione, ad opera della vita stessa che non sa offrire spiragli di sollievo. Se non lo spegnimento del cellulare e una passeggiata in riva al mare, ma proprio in contemporanea al manifestarsi del dramma.
Eppure, forse con un tocco di ottimismo simile alla luce di un fiammifero nell’abisso, Mike Leigh ci mostra qualche detrito di solidarietà tra i mentecatti, che si accende nel momento della tragedia, ad indicare la presenza di una fievole traccia di vita che strappa il telefono per chiamare un’ ambulanza o accorre sulla scena dove sta per consumarsi la sciagura, come a rifiutarla con i pochi mezzi a disposizione.
Sebbene l’espressione di Rachel , nel finale suddetto, lasci ben pochi margini a concrete speranze di cambiamento.
Anche in Tutto o niente (per eccesso), come nei film di Ken Loach (per difetto), dalla storia emerge la diagnosi di un contesto sociale deprimente che irradia le sue cellule malate ovunque, dentro e fuori gli individui, che sono i terminali di uno stadio patologico in fase acuta il cui epicentro deve essere spesso individuato fuoricampo: il marciume, direttamente o indirettamente, ha sempre le sue radici nell’inadeguatezza economica che miete le sue vittime.
Un altro punto di convergenza, comune a molto cinema inglese ma soprattutto ai due registi citati è la fortuna di poter delegare la descrizione di questi quadri di amarezza quotidiana ad una squadra di attori di efficacia imbarazzante. Il già lodato Timothy Spall, è solo il vertice di un cast che in ogni specifico gesto, in ogni sguardo, in ogni frammento di presenza scenica possiede una purezza realistica priva di compiacimento; un’ adesione plausibile al personaggio che infonde quella dose equilibratissima di credibilità da cui un film del genere non potrebbe prescindere.