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Id., Francia, 2002 di Gaspar Noé, con Monica Bellucci, Vincent Cassel, Albert Dupontel, Philippe Nahon, Jo Prestia Accade spesso che il successo o la popolarità ottenuti da un film siano inversamente proporzionali alle sue qualità oggettive. La partecipazione a un festival prestigioso, la fama degli interpreti, il battage scatenato dalla stampa specializzata ne sviluppano una sorta di mitizzazione che va al di là di ciò che il film vuole, o è in grado, di rappresentare. Irréversible non sfugge a questa tipologia, anzi si candida a diventarne uno degli esempi più significativi della stagione. Un'opera in grado di far parlare di sé anche chi non l'ha fruita, e incentrata su temi che tutti, prima ancora della sua proiezione ufficiale, già conoscevano: il sesso, la violenza, la lunga sequenza dello stupro di Monica Bellucci che, anche grazie a questa interpretazione, è ormai una star internazionale. Certo non si può negare che di sesso e di violenza il film ne contenga; è più che evidente, al contrario, che proprio di questi due elementi "primordiali", e soprattutto del loro amalgama (e di una strana forma complementarità per la quale nessuno dei due sembra poter esistere senza l'altro), Irréversible si nutra. Ma il film di Noé (non nuovo a esperimenti di questo genere) non è una riflessione sul sesso e sulla violenza, né un saggio metropolitano che scava nelle radici più profonde del male che si nasconde in fondo a ogni uomo. Irréversible sembra, per definizione, voler rinunciare a ogni pretesa speculativa per addentrarsi nella pura manifestazione fenomenologica dei fatti, senza offrire risposte e nemmeno cercarle. Cosa spinge, per esempio, il personaggio calmo e compassato interpretato da Albert Dupontel ad ammazzare un uomo sfigurandolo, in una scena che è ben più insopportabile di quella, ugualmente sconvolgente, dello stupro? A Noé, evidentemente, non interessa spiegarlo; neppure si cura di porre la questione. Gli interessa, pare di capire, costruire un universo distorto e contraddittorio, oscuro, nel quale sezionare minutamente i dettagli della disaggregazione di una felicità coniugale, che si regge su radici fragili e ben poco sicure. Per far questo, Noé utilizza una storia trita e banale, nulla più di un canovaccio ben poco originale (un uomo vuole vendicarsi di colui che ha violentato e picchiato la propria donna), innestato in una struttura narrativa che procede a ritroso, partendo dalla scena finale per concludersi con quella che, diegeticamente, si trova all'inizio. Nulla di nuovo, comunque: la stessa storia, il medesimo procedimento caratterizzano Memento di Christopher Nolan. Noé sceglie inoltre la strada del piano-sequenza: lunghissime scene senza stacchi o soluzione di continuità che seguono gli attori nelle loro peregrinazioni (per inciso, va giustamente segnalato che neppure questa è un'idea nuova, ma già vista, mutatis mutandis, in Un amore di Tavarelli). Ma il regista si spinge oltre; nel tentativo di scardinare le coordinate visive dello spettatore (costruendo così quello che si potrebbe definire "iperrealismo irreale"), Noé collega i vari piani-sequenza con una serie di audaci movimenti di macchina. Vediamo quindi la cinepresa incunearsi dove non ci aspetteremmo, dando vita a evoluzioni che spesso sembrano rievocare le tendenze del cinema sperimentale anni Sessanta. Ciò è manifesto soprattutto nella parte iniziale (finale), dove le ultime tappe del viaggio alla ricerca dello stupratore ci portano direttamente all'Inferno: un locale per omosessuali (che coerentemente si chiama Rectus) che Noé raffigura con la massima dinamicità possibile, ma accentuando anche la nostra difficoltà di percepire quello che accade (ambienti cupi, pellicola sgranata). Ne risulta un caleidoscopio di immagini di difficile definizione, che provocano uno spaesamento a tratti incontrollabile e una raffigurazione che si fa spesso onirica e vagheggiante, e che frantuma l'illusione di realtà. Eppure, nonostante i movimenti di macchina, i piani-sequenza, le irritanti, perché completamente decontestualizzate, citazioni kubrickiane (la macchina da presa passa e ripassa davanti a un manifesto di 2001: Odissea nello spazio, inoltre la colonna sonora iniziale è sorprendentemente simile alla Marcia funebre che apre Arancia meccanica), Irréversbile fallisce proprio dove cerca di rappresentare efficacemente una realtà e di costruire un universo credibile. La pretesa di essere una riproduzione "in presa diretta" si stempera miseramente in una manipolazione rozza e superficiale. Dove dovrebbe essere realistico, il film mistifica: dove dovrebbe (o forse soltanto vorrebbe) rivelare, nasconde interpretando e cercando tutte le allusioni possibili del caso. In questo senso, è emblematica la scena dello stupro. Sconvolgente, si è detto, ma anche eccessivamente lunga, cristallizzata in un insopportabile autocompiacimento di maniera; tesa, soprattutto, a provocare la massima repulsione ma incapace di non scadere quasi immediatamente nel cattivo gusto. Sorvoliamo sulla pochezza dei dialoghi, sulla mediocre interpretazione di tutti gli attori, sul pietoso auto-doppiaggio di Monica Bellucci. Se qualche traccia resterà di Irréversbile, sarà merito dello scalpore provocato al Festival di Cannes 2002; il resto è comodamente dimenticabile senza rimorsi di coscienza. Anche i pugni nello stomaco devono essere ben indirizzati, e soprattutto tirati con lucidità e intelligenza, per poter fare davvero male. |