Assodata la propensione, forse virale,
di questa lunga stagione cinematografica hollywoodiana per il recupero,
il saccheggio e la reiterazione, va registrata anche la sua presa non
indifferente sul comparto autoriale più insospettabile. Steven
Spielberg, dopo il ritorno a La guerra
dei mondi, sceglie di prolungare il franchise di Indiana
Jones a diciannove anni dal compimento della trilogia interpretata da
Harrison Ford, che ora si apprende in realtà destinata a comporre
una pentalogia. Dalla sua, il cineasta di Cincinnati ha avuto la natura
di un progetto tra i più adatti alla serializzazione, che con
la sue radici nel romanzo avventuroso dappendice, nei film seriali
anni30 e nel trattamento fumettistico permette, in tutta legittimità,
un reset ciclico delle impostazioni narrative concludenti ogni episodio.
Perché di episodi, nella loro valenza telefilmica di segmenti
autoconclusivi - e non di puntate narrativamente aperte ad una continuazione
non solo del racconto e della temporalità, ma anche di tutti
gli esistenti in quanto indispensabili ad un processo di sviluppo drammatico
- si è alimentato finora lapparato diegetico su cui si
muove lintraprendente archeologo con cappello e frusta. Lo ha
sancito indiscutibilmente il secondo capitolo della serie, Indiana
Jones e il tempio maledetto, assai scollato da tutti i riferimenti
ambientali, umani e caratteriali (lassenza delluniversità-base,
dei personaggi ricorrenti, delle certezze psicologiche iconizzanti il
protagonista), che pur reintrodotti con determinazioni ne Indiana
Jones e Lultima crociata hanno comunque palesato una
modello di filiazione allargato e non vincolato, anche per questo agevolmente
fruibile e destinato al riconoscimento popolare immediato. Spielberg
si è poi ritrovato la libertà di collocazione di un eroe
sostanzialmente libero dai confini della saga e dai rispettivi meccanismi
di adempimento agli universi precedentemente allestiti, in quanto ramingo
di saghe per antonomasia (quelle dellarca dellalleanza,
delle credenze indiane, dei crociati) ed oggetto/soggetto mitologico
lui stesso - quindi autosufficiente. Per il resto, il cimento del regista
si prefigurava come quello di un Pirro cosciente di un campo di battaglia
brulicante di avversità ed ostacoli. La guerra di Pirro di Spielberg è stata quella di confrontarsi nuovamente con il co-realizzatore della serie George Lucas, nonché ideatore nominale (con Philip Kaufman) del personaggio; collaborazione non proprio idilliaca come forse fin troppo ostentato negli anni (è ancora Il tempio maledetto il capitolo rivelatore: voluto da Lucas, poco amato da Spielberg), ma soprattutto regolata da unidea lucasiana della continuazione (o dellanticipazione, nel caso dei prequel) discutibilmente puntigliosa, con punte di asservimento ai diktat delle aspettative di massa spesso degenerative, finanche squalificanti sul profilo artistico. La storia del franchise ha voluto però Lucas già sazio - almeno per il momento - di sguardi in analessi, grazie allapprezzata filiazione televisiva de "Le avventure del giovane Indiana Jones", prodotta nel 1992. La guerra di Pirro di Spielberg è stata quella di voler tornare al progetto con piglio filologico, nel rispetto del cast, delle soluzioni di messa in scena e di estetica (effetti speciali old fashion compresi), dei regimi narrativi e rappresentativi instradati dal trittico originale. Si attesta che, sul campo, la strategia deve poi essere cambiata: Janusz Kaminski, nonostante il dichiarato studio delle pellicole fotografate da Douglas Slocombe per riportarne in vita lo spirito, non resiste alla sua blasonata direzione della fotografia, abbacinando infine di fasci luminosi i set di Guy Hendrix Dyas. Spielberg, per quanto intenzionato ad attenersi alla sua messa in quadro anni 80, articola un discorso filmico ricco delle fluidità maturate a seguire (magari a sfavore di un lavoro più elaborato sul découpage), particolarmente evidenti nella scrittura registica delle notevolissime sequenze action (su tutte linseguimento "jeep-a-jeep" nella giungla amazzonica), dove le iniezioni di CGI certo non mancano. E il rispetto del casting limitato alle partecipazione attoriali e non al loro aspetto anagrafico permette squarci analitici inediti sul personaggio interpretato da Harrison Ford - peraltro portatore di una senilità quasi esasperata da questo nuovo ritratto colto sul finire degli anni 50. Così, la volontà di aderenza al modulo ma il contemporaneo aggiornamento alle attuali istanze cronologiche (tanto fuori che dentro la diegesi), ibridano un testo che si carica di funzioni meditative e teoriche, in affinità con lesito raggiunto da Stallone con Rocky Balboa; nella consapevolezza, forse, che riprendere non significa necessariamente regredire, ma soprattutto continuare dallultima sosta, evitando le trappole del revival posticcio e dellautoemulazione schematica. La guerra di Pirro di Spielberg è stata quella dellorientarsi verso uno script che non richiamasse troppo in causa le mitologie delle passate saghe e gli avvenimenti dellallora prestante Indy. La severa selezione della sceneggiatura, sotto cui sono caduti pretendenti di riguardo come Frank Darabont, ha voluto che a spuntarla fosse leccellente David Koepp (La morte ti fa bella, Carlitos Way, Spider-Man), su soggetto di Lucas e Jeff Nathanson. Il suo plot non solo richiama direttamente agli artefatti delle passate avventure nelle sequenze iniziali, ma reintroduce dallapripista I predatori dellarca perduta il personaggio di Marion (Karen Allen) legandola a doppio filo al protagonista, incentivando il sottotesto di approdo alla vecchiaia del film e favorendo lamplificazione del tema familiare congenito allopera spielberghiana. Koepp lavora ancor più estesamente ad un ripensamento del franchise introducendo la contaminazione di genere: Spielberg risponde con gusto e destrezza, calando nel primo blocco Indy in una situazione serlinghiana da "Ai confini della realtà" colorata di pop-art, e innestando un cross-over virato al B-movie anni 50 che John Williams coglie altrettanto bene in partitura. Questa sferzata sui generis rispetto allo storico contesto archeologico del Prof. Jones permette anche a Koepp di rimettersi alla tradizione del serial, tessendo un lato mistery della storia allaltezza dei precedenti e forte di un traino decisamente appagante. Ad accrescere lefficacia del lavoro di sceneggiatura laggiunta del giovane ribelle Mutt (Shia LaBeouf), responsabile di un accrescimento ritmico nel racconto non trascurabile, del visionario stevensoniano Oxley (John Hurt) e di Irina Spalko, una villain impeccabilmente sbozzata da Cate Blanchett. Non ultimo, il lavoro di script quasi capovolge le dinamiche canoniche: è stavolta Indiana Jones ad essere inseguito piuttosto che a pedinare il reperto tanto agognato, cui anzi è costretto suo malgrado a dare la caccia, oltretutto guidato (lui, ineguagliabile segugio di tesori archeologici) dal collega Oxley. Di nuovo il copione di Koepp facilita al regista la corsia preferenziale per limmissione in due altri topoi della sua filmografia, linseguimento e la fuga: fino ad alti livelli di mise en abîme innescati dallambiguità del fedele Mac (Ray Winstone), il quale, oscillando continuamente tra buoni e cattivi, determina un plastico spostamento attanziale tra inseguitore e inseguito. Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo non reclama però alcun atteggiamento velleitario nei confronti del suo impianto di significazione ed è tuttaltro che un testo debole, perfettamente allineato ai suoi predecessori in quanto a concisione espositiva, collimazione dei tempi dintreccio e impasto serio-comico. Dunque la guerra di Pirro di Spielberg restituisce un film pienamente riuscito ed avvincente. Proprio perché persa a tavolino in quanto ad aspettative eccessive e oltremodo disparate, Spielberg sembra aver lavorato parallelamente ad un piano di sabotaggio della battaglia annunciata, evitando le trappole che sulla mappa indicavano il cammino risaputo verso la corretta produzione e la vittoria ingannevole (quello che Lucas non sembra aver saputo redigere per i prequel di Star Wars). A dispetto delle dichiarazioni dintenti sparse in corso dopera, che ora diventano anchesse plausibili connotati di quella campagna depistatoria intesa al silenzio stampa introno al lungometraggio. Con il risultato, non facile da raggiungere nel mainstream odierno, di un film che riesce anche a stupire genuinamente. E la guerra pirrica di Spielberg è una vittoria su tutta la linea. |