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id.,
Usa, 2006
di Sylvester Stallone, con Sylvester Stallone, Burt
Young, Antonio Tarver, Geraldine Hughes
Questo film non è Rocky VI. Stallone si sarebbe
dovuto premurare di precisarlo nella locandina del film, evitando inevitabili
disaffezioni e definitive delusioni tra i ranghi degli irriducibili
estimatori legati alla filiera del pugile cintura doro nellimmaginario
di almeno tre generazioni. Il titolo, senza proseguimento di numerazione,
potrebbe non bastare, per quanto sia pacifico che quel cognome di rinforzo
suggelli la volontà di un ritorno alla ritrattistica puramente
umana del personaggio, scevro dagli ingombranti diktat blockbusteriani
che lesigenza commerciale e lo spirito ottantesco dei precedenti
sequel aveva qui e là imposto. Non basta a dichiarare un procedimento
deenfatico interno, un alleggerimento vistoso dei cardini topici strutturali
al franchise, un libero esilio dalle griglie modellizzanti della saga.
Il montage-sequence dellimmancabile allenamento preparatorio al
grande match scivola veloce, contratto, finanche stravolto da unironia
di trattamento mai così volontaria; e lo stesso incontro finale
non entusiasma debitamente, mancando anzi del necessario mordente agonistico.
Stallone non celebra nessuna strategia narrativa, piuttosto ne mina
le certezze meccanicistiche per azzerare un discorso filmico che oltre
il già raggiunto logorio non sarebbe effettivamente potuto arrivare,
producendo così uno dei seuquel più anomali dellera
delle continuazioni: perché allo stesso tempo prequel dei pregressi
quattro lungometraggi (per diversità dimpostazione, di
forma e di progetto drammaturgico) e alterego dellinossidabile
primo capitolo (per marcata conformità alle medesime direttive
artistiche).
Forse lalternativa a quel quinto capitolo recentemente assai vituperato
(lattore non si è fatto scrupoli nelladditarlo come
episodio maggiormente insoddisfacente) o, ancora di più, una
sorta di seconda stesura di Rocky (volendo scavalcare
le coordinate cronologiche, la curva narrativa e lattenzione ai
personaggi parlerebbero da soli) Balboa rintraccia
nello spirito di fine anni70 su cui sorsero i primi due capitoli
il suo stimolo più sincero. Stallone aggiorna lappeal del
B-movie ricorrendo allunderstatment indipendente di contemporanea
matrice; redige uno script verboso (per qualità dei monologhi
il vero pregio della pellicola, per quantità il suo più
evidente difetto) originante una regia dalla solidità vecchio
stile, permettendosi di insistere su primi piani staccati dalle lunghe
focali come da tempo non se ne vedevano; non si sottrae allambizione
tecnica che lo accompagnava nellesordio registico (vale la pena
ricordare il battessimo del fuoco offerto da Rocky II
allallora nascente steadycam, prima ancora di Scorsese e Kubrick)
affidando al digitale buona parte del combattimento di chiusura; grammaticalmente
lascia spazio ad inequivocabili retoriche stilistiche dantan (freeze-frame
e ralentì su tutti). Non ultimo il supporto endemico dello score
offerto dal finalmente riemerso Bill Conti, codice dalla potenza autoevocativa
che cesella lazione con una freschezza e unessenzialità
orchestrali tuttoggi inusuali.
Fuori dal contesto estetico il film non perde la sua predilezione per
il Rocky del 1976 vero film del buon ritorno
per il regista - neanche sul versante autoriflessivo propriamente diegetico,
impegnato comè in una sottile dicotomia di intertestualalità
autoreferenziale e afflato autobiografico alquanto pronunciati. Oltre
a favorire riferimenti alla travagliata produzione dellopera stessa
il rifiuto della commissione sportiva al rinnovo della licenza
pugilistica in mimesi con i verdetti di sfiducia di molte major al progetto
prima che il regista arrivasse al benestare della Fox, il fugace Adrian
ti ha mollato di Paulie a fiscalizzare la netta rinuncia
di Talia Shire a riprendere il ruolo della storica coprotagonsita
il film mette in corrispondenza Rocky e Stallone attraverso punti di
contatto carrieristici praticamente identici: il ristorante del pugile
come rifugio dal fallimento professionale (Stallone e la catena di ristorazione
naufragata durante il suo più difficile periodo artistico), il
figlio lontano e assorbito dal lavoro (Sage Stallone impossibilitato
a riprendere il suo ruolo nella serie causa inderogabili impegni professionali),
la rassegnazione dellex-star che imita se stesso ai tavoli rievocando
gli incontri più suggestivi (il confinamento dellattore
in ruoli da caratterista nellultima tranche filmografica), fino
al climax sportivo, girato dal vero, sfruttando il pubblico
presente per un incontro autentico, dove realtà e finzione si
corteggiano e si sovrappongo con il pubblico adorante forse preso ad
urlare Sly anziché Rocky. La parabola
svelata e la precisione di quel nome e cognome del titolo che infine
palesano le proprie valenze di pseudonimo: Rocky Balboa è Silvester
Stallone. Nel 76 ancora solo un nome, un volto, una promessa
oggi una storia, più o meno interessante, da raccontare senza
troppe parafrasi di sorta.
Ecco perché Rocky Balboa è forse il più
personale dei Rocky (pur rimanendo inadeguato di fronte
alla folgorante bellezza dellapripista) e perché si fatica
non poco a valutarlo come esito autonomo. Senza cognome avrebbe ben
poco senso: senza la capacità di svelarne lalias si rimarrebbe
in balia di un film troppo livellato, incurante dei suoi debiti seriali,
qualche volta inconsistente e allocchio smaliziato fin troppo
furbo. Ma quel second name stavolta cè e fa la differenza.
Questo film non è Rocky VI e non vuole esserlo.
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