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id., Usa, 2006 di Mel Gibson, con Rudy Youngblood, Dalia Hernandez, Raoul Trujillo, Rodolfo Palacios Mel Gibson ci ha abituati a una visione del mondo basata su due principi contrapposti: il bene e il male. Preferibilmente entrambi con la lettera maiuscola. Incapace di accorgersi delle sfumature - forse per la sua appartenenza a un’America produttrice di Bush che, nel nome del loro personalissimo dio, porta sulla punta della spada la democrazia ai barbari, come un tempo si donavano loro religione e civiltà - il cosiddetto film-maker (non nel senso creativo alla Straub e Huillet bensì in quello di costruttore meccanico) Mel Gibson contrappone una comunità rurale idilliaca, composta da individui puri nella loro innocenza, a una società metropolitana corrotta, dedita a un consumismo ante litteram e assetata di sangue. Confondendo realismo e neo-realismo con il Grand Guignol, incapace di comprendere che non serviva a Rossellini mostrare le ferite di Anna Magnani per inorridire il pubblico di fronte alla crudeltà nazi-fascista, e dopo aver oliato bene la sua macchina di piaghe lacerazioni e truculenze varie con la Passione di Cristo, Gibson gode nel mostrare per quasi due ore: tagli ricuciti con la testa di formiche guerriere, bastoni conficcati nel costato (forse reminiscenze evangeliche), fiotti di sangue zampillanti dalla tempia, lance estratte dalla carne a mente serena, e un eroe indomito che nonostante la perdita di sangue e le ferite multiple corre incessantemente per due giorni nella foresta più fitta, laddove - come insegnava Che Guevara nel suo “Diario in Bolivia” – “…di solito si marcia cauti con l’aiuto del fedele machete”. Al termine di una sfida personalissima tra il giovane cacciatore del villaggio - interpretato da Rudy Youngblood - e il vecchio guerriero rappresentante della corrotta società Maya - Raoul Trujillo - gli spagnoli sbarcano nelle Americhe non come conquistatori che saccheggeranno villaggi e ridurranno le foreste pluviali a sparuti boschetti, bensì come giusto castigo per una società che ha esaurito le risorse della terra e vendetta del dio unico nei confronti delle religioni sanguinarie del nuovo mondo. Per riprendere quest’orgia di banalità targate Usa, Gibson non ha lesinato con i potenti mezzi economici di un’industria che, come tale, può permettersi di sfornare piccoli capolavori al fianco di successi di botteghino - un Ocean’s Eleven per un Bubble - e ha ricostruito dal nulla piramidi che sembrano modellini del Lego, utilizzando per le riprese di un film quasi esclusivamente in esterni fino a quattro cineprese digitali, grazie al fatto che come ogni principiante sa, il digitale permette lo spreco che la pellicola non concede e non abbisogna di grande maestria per regolare luce e colore. Con il pericolo, però, di rendere - come accade in Apocalypto - la foresta un luogo solare, laddove qualsiasi turista, che si sia recato anche solamente a Coba, sa che il fascino del luogo è dato proprio dalla luce soffusa che circonda uomini e oggetti, dalla foschia e dall’umidità che salgono fin dalle prime ore del pomeriggio e da quella sorta di oppressione dalla quale ci si libera solamente nel momento in cui si esce dalla foresta, per tornare al pullman fermo nello spazio assolato messicano. Eppure, nonostante tutti gli sforzi di Gibson, qualcosa gli è sfuggito di mano: almeno una parte dell’interpretazione dei personaggi principali si è sviluppata forse al di là delle sue intenzioni iniziali. Trujillo dimostra di essere un uomo a tutto tondo, con un carattere dotato di sfaccettature, tutt’altro che macchiettistico nella sua implacabile sete di vendetta, mentre il giovane Youngblood, pur cercando di sfoderare doti di attore dando spessore alla maturazione di un personaggio complesso - afflitto all’inizio da una paura atavica e via via cosciente della sua forza e della sua appartenenza alla foresta - si dimostra più danzatore che interprete, con un giovane corpo che flessuosamente rincorre la salvezza. E ancora, l’uso del dialetto Maya yucateco invece dell’americano moderno e di un cast di attori in gran parte sconosciuti e di origine indiana - anche se non sempre Maya - conferisce all’insieme un appeal documentaristico che non stona con la fotografia digitale. Resta un ultimo punto da affrontare: la polemica marginale ma non sterile, almeno in questo caso, sul possibile divieto ai minori di 14 anni. Sebbene, in generale, io provi una naturale allergia per qualsivoglia forma di censura, e sebbene sia perfettamente consapevole che lo splatter di Gibson non ha nulla da invidiare a quello mostrato tutte le sere in televisione da film persino meno artistici e più commerciali di Apocalypto, il dubbio resta. Non tanto nel merito della valutazione, dato che penso che un genitore possa scegliere, autonomamente, se portare o meno il figlio al cinema a vedere un’orgia di sangue, quanto perché in Italia si lascia più volentieri un minore davanti al videogioco di guerra che al telefilm che parla di omosessualità. Una piccola provocazione gratuita, forse, ma se la nascita in "L World" della bambina di Tina e Beth è dovuta andare in onda a mezzanotte, perché mai l’espulsione del feto della protagonista di Apocalypto può essere mostrata a tutti? O ancora meglio, se Priscilla. La Regina del Deserto deve essere trasmesso in seconda serata, perché mai dovrebbe essere più educativo per un bambino vedere strappare un cuore a mani nude dal petto di un uomo ancora vivo? Misteri di una società sessuofobica, omofobica, bacchettona… |