M. Night Shyamalan

La parabola del narratore di parabole
di Emanuele Boccianti

 
 
C’è un grande intento dietro ogni film di Shyamalan, ed è ciò che fa svettare i suoi film oltre la semplice affermazione al botteghino. Questa è l’intelligenza del regista: coniugare le sue personali esigenze di narratore con una forma narrativa che sia perfetta tanto per parlare di una poetica che per entrare in accordo con quanto il pubblico vuole sentirsi narrare. Da qui la scelta dei temi: il sovrannaturale, il fantastico. I fantasmi, i supereroi, gli alieni, i mostri, i miti; attingere ad un serbatoio collettivo e perfettamente condiviso, che diventa strumento dinamico per assecondare la grande ansia esistenziale che permea l’immaginifico dell’autore.

Un pantheon spregiudicato
Una visione trasversale dell’opera dell’indiano è già possibile, nonostante la sua cinematografia sia ancora giovane, proprio perché così sapientemente incarnata dalle sue personali visioni e tematiche; è di queste che si può dunque parlare, facendole affiorare in superficie e mettendole artificialmente a nudo. Sembra difficile in primo luogo prescindere dalle origini indiane di Shyamalan; l’India è un paese storicamente spirituale, profondamente legato ad una tradizione religiosa come l’induismo, che continua a proporre una sana visione politeista/pluralista del reale. Questo è un primo specifico importante: pluralismo e politeismo sono più adatte per costruire nel background di un cantastorie una teoria di figure archetipiche “morbide”; simbolismi duttili, in grado di poter essere utilizzati per confezionare ad arte dei sottotesti spregiudicati e disinvolti nei confronti di un assetto della realtà che altrimenti potrebbe restare troppo rigidamente irregimentato in una griglia razionalista, monoteista. Analogamente al pantheon multiforme e chiassoso dell’India, ne abbiamo quindi uno personalizzato, fatto all’occorrenza di spettri, di extraterrestri, di mostri, che senza alcun timore il regista mette in scena ogni volta che queste icone gli risultano efficaci per descrivere l’enorme complessità del mondo.

Teologia del sovrannaturale
Shyamalan è un autore teologico, e non religioso. La differenza tra queste due accezioni riguarda lo scopo precipuo del suo narrare, e cioè il veicolare un messaggio che dovrebbere rispondere all’enigma esistenziale dell’uomo (il posto dell’individuo entro una realtà che non sembra prevederlo) senza fornire in allegato alcuna risposta facile e di parte. L’autore ci dice che bisogna credere, ma non vuole accompagnarci al suo personale altare, la sua non è catechesi. Espone un panorama di un mondo scosso da forze e eventi terribili, misteriosi, in cui un protagonista è costretto a muoversi sempre con un corredo cognitivo parziale ed in apparenza inadeguato. Sente di far parte di un tutt’uno che lo precede e continua dopo di lui, anche se non è chiaro quale sia il suo ruolo in questo immenso. Ecco perché si tratta di teologia esistenziale, non di religione: l’accento è sullo scopo, sulla funzione intima e creatrice di senso che dovrebbe avere ogni essere umano in questo caos fenomenologico.
Di qui la funzione disvelatrice e psichedelica (nel senso di rivelazione dell’anima) delle figure della fiaba, del mito, eterne e mutevoli al tempo stesso.

La metafora nascosta: Il Sesto senso e Unbreakable
Funzione disvelatrice: l’archetipo contemporaneo del supereroe, che dà al protagonista, tanto quanto al suo alter ego malvagio, la possibilità di una comprensione ulteriore, se non su chi sia, almeno su cosa sia; un’identità relazionale basata sulla dialettica con l’altro (e la categoria dell’altro è fondamentale per i personaggi di Shyamalan). Funzione psichedelica: Bruce willis, psicologo infantile, si autoinganna raccontandosi che è ancora vivo. Un viaggio dentro sé stesso, una finzione sublime che serve all’eroe per comprendere quanto siano inadeguati i suoi strumenti di scienziato per affrontare la prova più difficile, che comporta, anche qui, un sostanziale riassestamento dei propri convincimenti su cosa sia reale e cosa no, tanto dentro quanto fuori di sé. In entrambi i film, è messa a tema un’ansia esistenziale di ricerca della funzione, del senso di sé in relazione al resto della realtà (e specificamente della realtà umana e morale) che rappresenta il cardine di tutto il cinema del cineasta indiano da un punto di vista della poetica dei contenuti. Il Senso è nel Tutto, non nelle singole parti, non nel sé.

Il dono del raccontarsi il mondo: Signs
Il concetto di senso di sé e ruolo nell’universo balza in primo piano nella vicenda del prete che perde la fede, e che la ritrova dopo aver fatto i conti con un’invasione aliena, nientemeno. Parlando con il suo primogenito, Mel Gibson porrà la questione fondamentale: che tipo di uomo sei, uno che vede i fatti solo come prodotti del caso (e del caos) o come miracoli, cioè piccoli o grandi atti che concorrono ad un unico grande senso e disegno, che ci trascende ma ci comprende? Qui è proprio Shyamalan a parlare, e Joaquin Phoenix è il pubblico e quindi siamo noi. Ci butta addosso la domanda quasi a metterci in questione, a prenderci con le spalle al muro. I miracoli sono le forme della narrazione, le figure del mito e gli angoscianti disastri della vita, che possono riacquistare senso solo se inscritti in un orizzonte narrativo, metafore viventi e operanti. In questa nuova prospettiva guadagnata, è miracolo l’alieno che preme alle assi della soffitta (e ci fa magistralmente balzare sulla poltrona), così come è miracolo l’assurdo di una bambina che dispone bicchieri d’acqua dovunque, o il non senso di una donna in fin di vita che dice cose incomprensibili. Ciò che fa grande e realizzato un uomo, allora, non è tanto la sua capacità specifica (curare le menti, curare le anime, non ammalarsi mai) ma il rendersi conto del valore di quella sua specificità entro un contesto enormemente più grande, e si tratta di un insight di cui si può essere capaci solo a patto di saper guardare i segni intorno a sé e, soprattutto, sapersene meravigliare. Vedere i miracoli, appunto. E questo è possibile solo con la riappropriazione della realtà come narrazione, che chiama fuori modelli interpretativi ormai desueti come quelli della razionalità, della scientificità. Ecco qual è la magia di cui ci parla Shyamalan, ecco il suo messaggio di guardare al mondo come favola, come metafora, come allegoria.

La metafora disvelata: The Village e Lady in the water
Da questo punto di vista i suoi due film successivi si situano su un punto ben definito di una parabola rappresentante idealmente la relazione tra le due funzioni principali del cinema di Shyamalan: la narrazione e la metafora. Per dirla più precisamente: l’immagine come capace di generare meraviglia in quanto tale, entro una messinscena narrativa costruita sapientemente; e l’immagine come simbolo, come rimando cioè a qualcosa che veicola e significa il messaggio teologico o esistenziale che sia. Se i primi due film rappresentavano la parte ascendente di questa curva, in cui tutto lo sforzo era dedicato ad incastonare il messaggio nell’immagine, tanto da mimetizzarla così perfettamente da renderla invisibile, al punto di far funzionare il prodotto autonomamente (il Sesto Senso “gira” perfettamente come ghost story, anzi, per certi versi è possibile dire che quasi ogni ghost story successiva che voglia fregiarsi di originalità deve un po’ fare i conti con esso), allora Signs sicuramente è la cuspide di questa curva, perché il messaggio esplode, diviene testo, si fa dialogo e quindi perde il carattere di ineffabilità, di mimesi che avevano i due precedenti lavori, pur restando in perfetto (e sottile) equilibrio con la potenza delle immagini e delle forze sceniche chiamate in atto: la riprova è che l’immedesimazione resta totale, e cioè che c’è posto per lo spettatore per sentirsi a casa dentro quella storia. Essa ancora lo sa accogliere e catturare perfettamente. Ma questa volta l’equilibrio è cambiato: la metafora comincia ad acquisire una posizione sempre più rilevante all’interno del setting delle pure immagini. Ne sia riprova lo svelarsi prematuro dell’unico motore che manda avanti la parabola-pamphlet della comunità chiusa e paranoicamente autosufficiente del Villaggio: il mostro senza nome è finzione già dentro la storia, è messinscena atta a rinforzare (o a essere ipso facto) la coesione della comunità. The Village inverte il segno del vettore tematico, proponendo stavolta una parabola negativa che è ad un passo dal divenire utopia negativa: qui la paura del mondo induce una comunità a recidere il suo legame col resto dell’universo - reale e morale - e ad autoconvincersi che solo in tal modo può sperare di ritrovare la propria ragion d’essere teleologica, salvo poi scoprire che il mostro è impossibile chiuderlo fuori dai propri confini, anche creandone uno che funga da contenimento delle energie centrifughe del gruppo. Eppure ancora funziona la formula Shyamalan, ancora una volta la suggestione sta in piedi, sorretta dai meccanismi primigeni della suspense e del mistero, perfettamente gestiti anche a livello registico e recitativo.
La favola della signora nell’acqua si impone, accentuando il distacco dalle opere precedenti, come racconto rivelatore, fin troppo: rivelatore dell’intento nudo del narratore che vuole farsi portavoce di una Verità e per questo si concede uno spiazzante ruolo come personaggio chiave nella sua stessa fiaba; rivelatore dell’inganno della storia, che come ogni storia di necessità deve ingannare, per recapitare nel cuore di chi ascolta o guarda un segnale forte, sdoganandolo tramite le maschere del pauroso o del portentoso. Ancora una volta una comunità rappresentata come avulsa dal proprio universo d’origine, ed efficacemente stilizzata attraverso le architetture atomizzate di un condominio, dove tutti vivono a stretto contatto eppure non si conoscono, non cooperano, non “sono” gli uni per gli altri. Ciò che cambierà questo stato di cose, spingendo a ri-strutturare la vita insieme come armonia di intenti, di ruoli, di funzioni verso un unico fine è il deus ex machina della ninfa, che piomba dall’alto e agisce i personaggi, investendoli di una funzionalità estranea e astratta - perché estemporanea e vissuta del tutto passivamente. Qui non c’è più lotta, né disperazione, rinvenibile nel sostrato emotivo dei caratteri; a difettare, in Lady in the water è prima di tutto una reale motivazione drammaturgica dei tipi umani che calcano le scene, cosa che invece ossessionava ogni precedente lavoro del regista indiano. E se manca il bisogno drammaturgico, se ciò che crea unione è l’adesione ai dettami di una favola raccontata pezzo a pezzo per telefono, attraverso - nientemeno - l’operare di un interprete che non sa e non vuole esserlo, il gioco del racconto non sta in piedi, non più. È un gioco che può affascinare per esotismo, per bizzarria, per vezzo naif, ma a farne le spese è l’immedesimazione, quella sacrale sospensione dell’incredulità che è propellente fondamentale per ogni storia che voglia dirsi tale, soprattutto se utilizza gli stilemi del mistero o della tensione.

La crescita come tradimento
Al termine della nostra approssimativa parabola ritroviamo quello che c’era agli inizi, prima del successo. E cioè un autore che era approdato al cinema in giovanissima età, e che prima di affermarsi coi fantasmi e gli alieni versava in grosse difficoltà per riuscire tradurre in scene le sue sceneggiature: tematiche troppo altisonanti, gli veniva detto, troppa filosofia esistenzialista, troppa retorica teologica. Si narra che poi avesse imparato - machiavellicamente? - ad utilizzare ciò che in quel momento più pagava a livello di presa sul pubblico; da qui i suoi capolavori e il suo contributo alla rinascita di un genere, l’horror, con contenuti più adulti. Adesso, che il suo potere contrattuale è tale da consentirgli di opporsi perfino alla Disney, può sentirsi libero di tornare a fare quello che voleva, a dire quello che voleva sin dall’inizio.
In ultima analisi, però, S. potrebbe essere sospettato di tradimento artistico - ad essere veramente cattivi - almeno per quanto riguarda la sua ultima fatica: perché il tipo di storie che lo hanno reso ciò che è si rivolgono alla parte più bambina del suo pubblico (e ciò è fortemente tematizzato in Lady in the water), ma lasciando proprio quella parte più o meno insoddisfatta. Con l’unica rivelazione che un bambino - e solo lui - può fare, al cospetto del sovrano fantasista: additarlo senza falsi pudori e sconfessare la sua strumentale finzione. Adesso il Regista è nudo. Staremo a vedere.