Gore Verbinski
Caccia alla fiaba
di Giuliano Tomassacci

 
 
Stranamente, ogni qual volta il cinema coinvolge il mezzo televisivo nei suoi interessi, la tentazione più grande è quella di servirsene come capro espiatorio di inquietudini indicibili – spesso altrimenti intraducibili – o come proscenio di demoniache presenze. La televisione, ripresa con la tecnica a lei più affine, riflette connotati sinistri e minacciosi, insondabili e proprio per questo angoscianti; uno specchio che invece di deformare spoglia e costringe a “vedere”, disarmando da qualsiasi censura, individuale o di massa, e da qualsivoglia tabù sociale e spirituale. I fotogrammi di scarto tra i due mezzi scoprono un vaso di Pandora il cui contenuto di lamenti, credenze demistificate e dimensioni ultraterrene inaccettabili invade e schiaccia chi è costretto – sia questo personaggio dell’opera o fruitore della stessa - a trovarsi nel mezzo di un tale processo mediatico. Lo spettatore viene osservato, messo in discussione e sconvolto dal mezzo stesso che acquista una bivalenza insolita e volontaria. E’ in questo che il cinema delega al piccolo schermo la stessa ambiguità di uno specchio, soprattutto nell’accezione anglosassone del termine, looking glass : un vetro che, quasi stanco di essere guardato, rinnega il suo sterile ruolo di accomodante catalizzatore di quotidiane frustrazioni e, rifuggendo dalla sorda passività conferitagli, le restituisce al mittente su frequenze raggelanti. Questa anomalia di funzionamento, improvvisa e imprevista presa di coscienza ‘catodica’, si manifesta, di volta in volta, nei modi più disparati, sia che la scatola televisiva diventi stato intermedio tra la nostra ed una dimensione altra (Poltergeist) sia che l’etere si presti come terreno neutro su cui liberare i freni inibitori fisici e mentali (Videodrome) fino a trasformarsi in ammiccante ed aggressivo movimento propagandistico a favore di una nuova società mediatica.
Con The Ring di Gore Verbinski il potere televisivo eredita entrambe queste connotazioni, sebbene retroceda da incontestato ambasciatore dell’ignoto a comune output dispensatore di malesseri trapassati. Comune poiché la disperata maledizione della povera Samara non si limita allo schermo domestico ma si estende alla generale tecnologia audiovisiva, dal vhs e il videoregistratore al telefono che sigla l’avvenuta condanna, dal supporto fotografico alla ripresa a circuito chiuso che inibisce i volti dei malcapitati. In fondo le ossessioni della bambina non sono mai state filmate, come essa stessa ammette, ma improvvisamente comparse, semplicemente desiderate, evocate. Non c’è finzione: la mosca si stacca dal video, Samara esce dallo schermo e compie il suo rituale; l’etere non è altro che il suo vettore più sicuro e capillare, la società multimediale in cui si risveglia glielo impone. La morte corre sul filo. Il cerchio si chiude.
A chiudersi è effettivamente il pozzo-sepolcro in cui la giovane viene gettata dalla madre degenerata e il cerchio altro non è che la fessura ritagliata dal coperchio, unica fonte di luce del baratro, similmente al cunicolo fognario in cui precipita la bara del vecchio Smuntz nell’incipit di Mouse Hunt (Un Topolino Sotto Sfratto, 1997). Ma Verbinski, nel suo remake del giapponese Ringu, dissemina il visivo di simboli circolari che assiduamente rimandano all’effige del mortale filmato, sciogliendo la connotazione testuale nell’estetica del film stesso. Figure circolari si susseguono a livello più o meno inconscio, dal logo Dreamworks a frammenti subliminali inseriti nell’arco del lungometraggio, per non parlare delle giunte di montaggio sulla pellicola, esclusivo elemento della proiezione in sala. Altri rings popolavano già il precedente lavoro del regista, The Mexican (2001), ma in questo caso destinati ad altre valenze: le lampade semaforiche impazzite, l’anello-pallottola custodito nella pistola che dà il titolo al film.
Certamente, sarebbe limitativo, e oltremisura prematuro, eleggere tali ricorrenze figurative a tematica portante dell’attuale discorso cinematografico di Verbenski. Adottando tutte le doverose precauzioni analitiche necessarie difronte all’opera di un cineasta giunto soltanto alla sua terza esperienza cinematografica, è pero possibile individuare alcuni interessi regolari nonostante l’ecletticità delle scelte e la sostanziale diversità dei tre lungometraggi. In primo luogo l’interesse alla rivisitazione del genere, che in Mouse Hunt si manifesta nelle ambientazioni old style e nella purezza di una comicità apertamente influenzata dallo slapstick più genuino (eloquente la scena in cui i due protagonisti, ormai devastati dall’indesiderato topolino, comunicano a gesti e lamenti simulando una comica muta) ; una insolita contaminazione di pulp, commedia romantica e coloriture leoniane miste a suggestioni a là Peckinpah, caratterizza il maltrattato The Mexican. I contributi musicali di Alan Silvestri - collaboratore di Verbinski fino a The Ring (musicato da Hans Zimmer), che ritroverà il regista nella sua prossima fatica la Maledizione della prima luna - amplificano maggiormente questo gusto cine-referenziale : lo score di Mouse Hunt ripercorre brillantemente alcuni dei generi più rappresentativi della musica da film, accarezzando melodie rotiane per la sventurata coppia protagonista e interventi votati alla classicità delle commedie golden-age, mentre la musica per The Mexican è una divertita rielaborazione del linguaggio morriconiano per il western all’italiana. Per quanto riguarda The Ring poi, forse non c’è rivisitazione migliore del remake stesso (Rientrerebbe nel discorso anche il remake di The Time Machine, 2002, regia di Simon Wells, a cui Verbinski ha preso parte dirigendo alcune sequenze di particolare complessità, ma si preferisce escluderlo dalle considerazioni fatte in questa sede vista la natura prevalentemente tecnica di tale contributo).
Quest’ultimo horror è inoltre la dichiarazione più esplicita dell’altra fondamentale fascinazione a cui il cinema di Verbinski sembra essere fortemente sensibile : la leggenda e/o la favola. Le ricerche della giornalista Rachel Keller (Naomi Watts) che porteranno alla scoperta di incredibili verità prendono le mosse da una leggenda metropolitana proprio come le scorribande di Jerry per il recupero della The Mexican si complicano a causa delle mitiche origini della stessa pistola. Non ultima la casa abbandonata dei fratelli Smuntz (Nathan Lane e Lee Evans) nasconde un egregio passato (la sua progettazione si scopre appartenere ad un famoso architetto) e la bizzarra morte del precedente possessore (trovato chiuso in un baule in soffitta) viene presto sminuita dai nuovi ereditari come semplice, stravagante racconto. Fino a quando, essi stessi, non vengono coinvolti nel mito e, trasferendosi nella decadente abitazione, ne diventano soggetti involontari, rendendosi addirittura testimoni dell’episodio del baule. Stesso cammino, forse più esibito, per il duo Jerry (Brad Pitt) - Samantha (Julia Roberts); il loro mischiarsi con le controverse origini del ‘maledetto archibugio’ servirà loro come incentivo al chiarimento della loro situazione. Nel finale anche loro arriveranno ad un parallelo con la leggenda che lì insegue, leggenda tra l’altro montata da Verbinski come una vecchia proiezione che si offre all’immaginazione di Jerry, ricalcando il filmato di Samara che si offre alle sue future vittime. Rimanendo a The Ring, infine, anche nel coinvolgimento diretto del duo Noah (Martin Henderson) - Rachel Verbinski è più palese, guidando passo passo i predestinati nelle ‘casuali’ rievocazioni delle immagini impresse nel vhs.
In attesa di ulteriori approfondimenti mitico-leggendari, è interessante prendere atto di come, per il suo prossimo film, Verbinski non abbia rinunciato alla tentazione celebrativa, volgendo questa volta il suo personalissimo sguardo al genere picaresco.