the Ring

Il paradossale strepitare dei simboli
di Luca Persiani

 
  Id., Usa, 2002
di Gore Verbinski, con Naomi Watts, Martin Henderson, Brian Cox, David Dorfman


Scream, Urban Legends, Final Destination, il Sesto Senso: mettiamo in testa a questo articolo le inevitabili citazioni del cinema horror-thriller americano più o meno teen degli utlimi anni, proprio come fa the Ring, che nella sequenza d’apertura cita immediatamente questi riferimenti. Come se volesse avallare, per superarle e liquidarle, le possibili obiezioni dello spettatore nei confronti dei punti di partenza dell’operazione, che d'altronde è stata scritta da quel Ehren Kruger responsabile del copione di Scream 3 (nonché di quelli di Arlington Road, Trappola Criminale e Impostor). Perché se the Ring non dimentica certo il new horror dell’ultima generazione, d'altro canto lo cita subito per allontanarsene scientemente, impiegando un approccio al genere decisamente originale. Approccio dettato in gran parte, paradossalmente, dall’originalità del film di cui è il remake: Ringu, il folgorante e fotunatissimo chiller soprannaturale tratto dal best-seller omonimo di Koji Suzuki per la regia di Hideo Nakata, il regista giapponese responsabile anche del meno incisivo ma ugualmente interessante sequel Ringu 2 (esistono anche un prequel, Ringu 0 - the Birthday, e un remake coreano, Ring Virus). In Ringu si sprigionava tutta la forza di una messa in scena basata su principi linguistici prettamente giapponesi: dalla scelta dell'inquadratura, alla direzione degli attori al ritmo della narrazione, il film sembrava un puro horror a la Ozu, come se la forma altera e raggelata del cinema nipponico avesse trovato piena espressione e massima, universale godibilità in quell'operazione.
Gore Verbinski (un Topolino sotto sfratto, the Mexican) tenta con precisione di seguire le modalità narrative raggelate e tensive di Hideo Nakata, ottenendo così un film originalissimo proprio perché è evidentemente occidentale ma supera i cliché del genere così come sono stati dettati dall'industria di riferimento (quella hollywoodiana). L'occhio di Verbinski rimette in scena le vivide e contrastate immagini dell'originale con convinzione e intensità, accumulando per strati una complessa schiera di simboli semplici e abbaglianti: il videotape, la televisione, il telefono e il suono del telefono (ring), il pozzo e l'eclissi (entrambi circolari, entrambi simili ad un anello - ring), un albero in fiamme, una bambina in manicomio, cavalli morti, un faro, insetti, e altri ancora. Tanto che ogni immagine del film, da un certo punto in poi, sembra avere un senso ed una valenza segreta. Anche quando non la ha, a conti fatti, né nelle intenzioni dei realizzatori né nella riuscita del racconto. E questo era proprio il pregio misterioso e sospeso del Ringu originale: il racconto inchiodava talmente lo spettatore della poltrona che lo strepitare dei simboli evocati era pura fonte di angoscia e mai lasciava spazio a domande legittime (ad esempio: come mai la bambina ha scelto di comunicare attraverso una videocassetta?) e in alcuni casi anche spiegabili, ma comunque inutili per il godimento del film. E questo è anche, ancora paradossalmente, il peccato estetico e culturale di Verbinski e Kruger, che invece sentono l'insopprimibile necessità (dettata anche da regole commerciali ferree) di chiarificare di più l'azione e la narrazione. La volontà di dare un senso alla maledizione di the Ring sottrae efficacia alla congerie di immagini brucianti e aperte che agiscono direttamente sul parte rettile del cervello, e che sono la fonte incomprensibile e incontrollabile dell'orrore.
In altre parole, the Ring tenta una - a questo punto inevitabilmente - paradossale quadratura del cerchio: l'inspiegabile dispiegato alla ricerca della massima estensione della sua maestà irrazionale e, contemporaneamente, spiegato alla ricerca di un senso ulteriore inscrittibile nel reame del razionale. Il terrore è frenato da una necessità esplicativa che funziona da esorcismo del soprannaturale, quasi ci fosse l'impossibilità di spingersi completamente verso lo sconosciuto, come se chi racconta temesse di esplorare una terra senza riferimenti su cui è difficile, se non impossibile (e quindi pauroso) esercitare un controllo. Il filo che lega Scream a the Ring è quello di un telefono e di uno scampanellio, che nel tragitto si trasfigura da segnale di una persecuzione maniacale ad indizio di una rabbia soprannaturale, per poi perdere il suo valore di segnale e diventare puro simbolo. E, una volta arrivato all'apparecchio all'altra estremità, riformarsi come suono e senso, sicuramente distorto e, quindi, inevitabilmente meno efficace. Un'operazione ardita e complessa, sostanzialmente riuscita a metà, ma comunque imprescindibile tentativo visionario che testa, forse suo malgrado, i limiti del raccontabile.