La perfezione della morte al cinema

Still Life
di Francesco Rosetti e Donatella Valeri

 
 
Non si può aspettare fino al giorno della resurrezione.
Chi piange i suoi morti non è tra venti anni, non è tra mille anni che spera di rivederli, ma subito. Quello che aspettiamo da voi altri è che diciate “Alzati e cammina” e che i morti si alzino e camminino.

(La camera verde)

Tutto ciò che viene detto invece di essere mostrato è perso per il pubblico”, questo scriveva Truffaut nella sua lunga intervista "Il cinema secondo Hitchcock", sintetizzando bene l’ossessione primaria sottesa a tutto il cinema hitchcockiano. Ogni sequenza è un’informazione per lo spettatore, e per il regista inglese è l’occasione di ricostruire un mondo più credibile e più coerente di quello reale. In questa direzione il regista si sostituisce alla divinità, diviene demiurgo, perversione in fondo latente in ogni produttore di immagini e in tanti esempi della cinematografia recente: il Dennis Hopper/Mickey Wayne di Blackout, lo Ed Harris/Christof (Kieslowski?) di The Truman Show, il Sydney Pollack/Victor Ziegler di Eyes wide shut, il François Truffaut/Ferrand di Effetto notte, il Bruce Greenwood/Francis Brown di Exotica, la Charlotte Rampling/Marie Drillon di Sotto la sabbia

Ossessioni e credulità
Da buon cattolico, però, Hitchcock intuisce gli elementi ambigui, per non dire diabolici, di questo sforzo prometeico. Costruire un mondo significa stabilirne le regole; dietro questa ossessione si nasconde una volontà di potenza inammissibile: per questo gli eroi hitchcockiani sono sempre dei perdenti e degli impotenti e per questo il suo cinema oscilla sempre fra controllo dell’immagine e consapevolezza dello scacco a cui è destinato tale sforzo. Creare un mondo e le sue regole presuppone anche gestire l’atto che più contraddistingue il carattere divino: dominare la morte o meglio la sua assenza. Ricostruire in immagini (dare vita) ai defunti significa sottrarli alla morte e reimmeterli nel flusso della visione. David Kentley in Nodo alla gola, Rebecca in Rebecca la prima moglie, la madre in Psyco, Madeleine in Vertigo, sono i veri protagonisti, i motori delle rispettive pellicole, proprio per il loro statuto di morti, una condizione però che li rende incontrollabili. Dal gestire la morte, alla necrofilia, l’essere posseduti dalla pulsione di morte, tanto che in Psyco la madre di Norman non è niente altro che una voce, quindi una presenza talmente potente da riuscire a manipolare un corpo in vita. I piccoli frankenstein hitchcockiani sono degli apprendisti stregoni, danno la stura a fenomeni che non possono controllare. Quando la sete di conoscenza oltrepassa i limiti moralmente (e cattolicamente) accettabili, porta soltanto al fallimento, perché l’uomo è intimamente malvagio e incompleto.
Hitchcock resta il regista che, con Psyco e Vertigo, ha dato due esempi eccellenti di poetica della memoria/ossessione e non è un caso che Truffaut ed Egoyan, entrambi grandi estimatori del maestro inglese, abbiano ripreso questo tema, l’uno nel suo film più doloroso, La camera verde, l’altro in quasi tutta la sua filmografia.
Ogni inquadratura di un film è un’informazione che si dà al pubblico”, ma questa informazione può essere una menzogna, o meglio, ogni informazione è una menzogna. L’immagine hollywoodiana possiede un tale grado di imposizione sullo spettatore, che è l’unica a poter essere percepita come verosimile pur essendo evidentemente falsa. Hitchcock gioca con le immagini dando allo spettatore tutte le informazioni per essere smascherato, certo che non lo sarà mai. Psyco è uno degli esempi più significativi: neanche a metà film veniamo a conoscenza che la signora Bates è morta, è stata sepolta, eppure ci basta aver visto la sua ombra scostare la tenda nella doccia oppure essere portata in braccio dal figlio Norman nella cantina, in una delle sequenze più costruite del film, per essere sicuri della sua esistenza. Tutto il gioco di Hitchcock si basa sulla falsa credulità dello spettatore, che assegna irresponsabilmente valore di verità a ogni fotogramma. A ogni livello di costruzione, narrativo, registico e di inquadratura, Psyco non fa niente altro che scardinare le regole di genere: Hitchcock non nega la presenza di codici, ma procede con un andamento di continua creazione e demistificazione. Non vi è assenza di protagonisti, ma sovrabbondanza: l’immedesimazione viene negata di continuo dalla progressiva eliminazione di tutti i potenziali eroi (Marion, Arbogast, la signora Bates). In Vertigo la demistificazione preesiste alla struttura stessa del film:
1. Lo spettatore, per forza di cose, è chiamato a identificarsi con James Stewart, l’eroe di Frank Capra, il buono per eccellenza del cinema americano.
2. Lo spettatore, a un secondo livello, si identifica nel poliziotto Scottie (figura di garanzia), rappresentato all’inizio del film come personaggio positivo, anche se con tratti via via crescenti di ambiguità.
3. Lo spettatore si identifica in Madeleine, dal momento che la figura della donna è filtrata dallo sguardo amoroso di Scottie.
4. Cosa succede con la morte della donna (colpo di scena anche qui a metà film) e con la scoperta che il personaggio nel quale ci si è identificati non è nient’altro che un maniaco? Potenzialmente ne condividiamo le stesse pulsioni ossessive. A conferma di questo, la figura di Gavin Elster, il vero assassino di Madeleine, nel secondo tempo scompare, non c’è più bisogno di lui, visto che Scottie ne prende il posto.
L’interdetto che Scottie rompe è quello di scoprire la perfezione dell’immagine nella morte. Lui non può riconoscere Madeleine in Judy, deve ricostruire Madeleine in Judy: le fa indossare gli stessi vestiti e le stesse scarpe, le fa tingere i capelli e le fa adottare la stessa acconciatura… Scottie non può riconoscerla, perché il suo paragone è un’immagine cristallizzata della donna che ama, un’immagine mentale digitale.

Cinema impietoso ed umanistico
Assegnare a un morto un’immagine tecnicamente perfetta, tattile, ma contemporaneamente astratta è ciò che i personaggi di Egoyan cercano nell’immagine digitale. Il legame fra i due registi, al di là del gioco cinefilo delle citazioni (e nel regista armeno sono tantissime), è poetico, di sensibilità. La personale signora Bates di Egoyan, la madre di Hilditch nel Viaggio di Felicia, non ha più bisogno di essere una mummia, il suo sarcofago è una televisione, è sottratta per sempre al flusso del tempo. La voce della signora Bates ossessiona Norman a tal punto che quest’ultimo deve dargli un corpo, la signora Hilditch è una voce che fluttua costantemente nella casa, grazie alla qualità tecnica dell’immagine televisiva. Se tra gli anni ’40 e ’60 l’immagine mimeticamente perfetta era quella dell’industria hollywoodiana, allo stesso tempo falsa e verosimile (e Hitchcock, di conseguenza, poteva lavorare solo a Hollywood), nell’ultimo ventennio del XX secolo l’immagine riproduttiva per eccellenza diventa quella digitale, ed Egoyan la usa. In Il viaggio di Felicia, Mondo virtuale, Black Comedy, Exotica, il ricordo atrofizzato si sostanzia attraverso questo tipo di immagine, che si vuole oggettiva. La videoteca di Hilditch è l’archivio della sua memoria; scegliere una videocassetta per lui non è diverso dal selezionare un ricordo. Clara, in Mondo virtuale, invece di recarsi in un cimitero, entra in una stanza asettica, dove può incontrare in un filmato il fratello morto. L’ossessione è sempre la stessa: dare un corpo a un’idea. Come l’immagine mentale di un ricordo, l’immagine digitale non può che rimanere simile a se stessa, non muta mai. Essendo inoltre priva di elaborazione formale apparente, acquista una paradossale naturalezza e un maggiore agio nella fruizione. Hilditch, in Il viaggio di Felicia, conserva le registrazioni delle ragazze che ha ucciso, solo per ricordarsi di averle salvate, di averle tolte dalla strada.
Se Hitchcock, per il tratto culturale del peccato originale, è portato a non credere nelle immagini, a vedervi solo una falsa coscienza, se Truffaut, al contrario, tende a conferire loro uno statuto di idea superiore e più alta del puro dato naturale (Ferrand, in Effetto notte, afferma che il cinema sia migliore della vita), Egoyan opera una sintesi fra le due visioni. Non crede in assoluto all’innocenza delle immagini e, di conseguenza, al loro produttore (che sia l’operatore del ricordo o l’operatore cinematografico), permane, però, in lui un fondo umanistico, schiacciato in Hitchcock dal peso del peccato originale. Egoyan è impietoso con i suoi personaggi, Hitchcock è spietato. Gli “eroi” di Egoyan sbagliano, ma non per eccesso di ambizione: sono vittime di una rimozione. Nel regista armeno-canadese la costruzione del ricordo e la costruzione delle immagini vivono su una scelta di materiali. Hilditch, ad esempio, seleziona i propri ricordi in base alla loro appetibilità: sono immagini idilliache, immerse in un’atmosfera di felicità perfetta. In realtà fra le pieghe di questa elegia familiare, si insinua una smagliatura: in una puntata, la Madre fa ingoiare del fegato al figlio, davanti alle telecamere. Il bambino vomita; Hilditch, nel rivedere quelle sequenze dimenticate, vomita a sua volta. La realtà di violenza familiare subìta dall’uomo ora può emergere chiaramente. Il rimosso si è preso la sua rivincita. Lo scacco dei personaggi di Egoyan è questo: pensare che rimuovere i ricordi/immagini scomodi significhi automaticamente rimuoverne l’esistenza, o quantomeno gli effetti. Ora Hilditch può anche ricordare di aver ucciso quelle ragazze, e non solo di averle salvate. Essendosi fidato della forza delle immagini, ora è indifeso di fronte alle immagini stesse.
Nel momento in cui l’uomo scopre lo shock della morte, sente che i suoi sforzi sono inutili. Il mondo, la vita divengono un assurdo. Come reagire a questo shock?

Ricostruire e dominare
Ricostruire il mondo in immagini, ci dà la possibilità di dominarlo e, di conseguenza, ritrovare un proprio posto (e logicità). Il “complesso della mummia”, esplicitato da André Bazin, è un tentativo di sopravvivere alla propria stessa morte. La mimesi fotografica è lo strumento per raggiungere l’eternità. Truffaut inizia le riprese de I quattrocento colpi il giorno stesso della morte di Bazin e la fine delle stesse coincide con la nascita della sua prima figlia, eppure il film verrà dedicato a Bazin, cioè alla vita che non finisce, piuttosto che a quella che nasce. Il regista francese riafferma con forza la necessità di questo paradossale culto dei morti, come sarà più evidente in La camera verde. C’è una sequenza di quest’ultimo film che mostra in maniera inequivocabile il legame di ispirazione che lega Truffaut e Hitchcock, in special modo in riferimento al tema del lutto. Julien Davenne (François Truffaut) va a ritirare una statua di cera raffigurante la moglie morta, del tutto simile alla mummia della signora Bates: seduta, volto severo (paralizzato in rigor mortis), con i capelli raccolti in uno chignon. Naturalmente Julien la trova orribile, non vi riconosce la moglie e, nella sequenza successiva, la mpd, posta fuori dall’edificio, riprende attraverso le finestre il creatore del manichino che, prima di distruggere la sua opera, la prende fra le braccia, esattamente come Norman Bates fa con la mummia della madre prima di portarla in cantina. Julien Davenne è Hitchcock, ma rappresenta anche la volontà di Truffaut di superare il regista inglese e la sua disperazione. Confrontiamo alcune osservazioni di Truffaut su Hitchcock con una frase di Julien, troveremo una identificazione pressoché totale del regista inglese nella figura del malinconico cronista di provincia. “Il cinismo che può essere reale in un uomo forte, non è che una facciata nelle persone sensibili. Può nascondere un grande sentimentalismo, come nel caso di Eric von Stroheim, o semplicemente del pessimismo come in Alfred Hitchcock. Louis Ferdinand Celine divideva le persone in due categorie, gli esibizionisti e i voyeurs ed è evidente che Alfred Hitchcock appartiene alla seconda. Non si immischia nella vita, la guarda” oppure “Quando si è reso conto, da adolescente, che il suo fisico lo metteva in disparte, Hitchcock si è ritirato dal mondo e l’ha guardato con una severità inaudita”. Questo è ciò che François Truffaut scrive su Hitchcock, mentre, in un dialogo con il suo direttore, Julien Davenne arriva ad affermare “Ho capito che per certa gente la vita è una lotta feroce dove tutti i colpi sono permessi. Allora mi sono ritirato dalla gara e […] sono diventato un semplice spettatore della vita”. Julien non ama la vita, è un necrofilo, dietro il suo culto dei morti c’è l’amore della morte in sé. Un ulteriore passo avanti e, negli anni ’90, il necrofilo solitario si trasforma nel gentile serial killer Hildich.

La donna, l'ingenuità
Nell’universo immobilizzato di Julien, la comparsa di una donna, Cecilia (Nathalie Baye), come nei casi di Norman Bates o di Hilditch, porta disordine. La donna, in Truffaut, genera vita, è l’elemento pulsionale, vitale. Julien decide di morire nel momento in cui la donna stessa tende a sacrificarsi per lui. Accettare di desiderare il sacrificio di Cecilia vuol dire accettare la fine di ogni ipotesi di vita stessa e, come Hilditch, non può sopportare che tutto svanisca, ma, prigioniero della usa stessa impotenza, non può nemmeno reinserirsi nel ciclo vitale.
In Hitchcock la donna, severa nei suoi tratti più austeri e nordici e spesso inquadrata di profilo, ha un lato nascosto, potenzialmente distruttivo, proprio in quanto inconoscibile. Il suo erotismo è sempre raggelato e quindi esplode nella pulsione di morte. Lo scatenamento della follia porta alla catastrofe, mentre in Truffaut la follia possiede un’accezione liberatoria, positiva, proprio perché riconosciuta e utilizzata. Il mondo, anche e soprattutto dei sentimenti, nel regista francese è sempre visto attraverso gli occhi di bambino (anche quando i suoi personaggi crescono), tanto da poter affermare che la marca di riconoscobilità dei suoi film è proprio un punto di vista vergine, ingenuo. L’ingenuità di Truffaut è comunque cercata, voluta, per mantenere l’incanto su ciò che ci circonda (il cinema è un atto d’amore). L’elemento amoroso incanala la pulsione pura e semplice, che in Hitchcock era naturalmente violenta, in sentimento dell’esistenza.
Truffaut in pieni anni ’70, forse proprio in virtù del suo sentire anarchico, quindi umanistico, riesce a trovare una risposta sia allo scetticismo hitchcockiano, impregnato di sfiducia nella natura umana, sia all’amarezza di Egoyan di fronte alle solitudini irrisolte dei suoi personaggi.