Riletture ironiche nella sci-fi anni '90
Fanta... scienza da bere
di Ilario Pieri

 
 
La scena: Ed Wood/Johnny Depp intrattiene il suo mito Bela Lugosi/Martin Landau sul tempo che fu, e di riflesso la conversazione finisce per implicare proprio Burton, l’autore dietro la macchina da presa (nel suo rapporto quasi divinizzante nei confronti di Vincent Price), e la complicità dello spettatore. “A nessuno più interessano i classici del terrore. Oggi vogliono solo insetti giganti, enormi ragni e gigantesche cavallette”, afferma il consumato interprete. “I vecchi film erano molto più paurosi”, replica il giovane di belle speranze. In questo semplice dialogo da Ed Wood (1994), Tim Burton esalta l’epoca dei "classici del terrore", tutta giocata sull’entusiasmo per un cinema di sogni, di approfondimenti culturali e mitologici, trasformati in romantico intrattenimento popolare dall’abilità dei realizzatori. Invece il palese riferimento alla science-fiction di serie b - popolata di ragnoni che cominciano a investire gran parte dello schermo nei primi anni Cinquanta, dal mercatino dell’usato di William Castle e Roger Corman alle preziose minuterie tipo Tarantola (1958, Jack Arnold) - allude ad un immaginario superficiale, da fast-food, per giovani in libera uscita nel week-end. È come se Burton, inquilino di quella orripilante periferia che risponde al nome di Burbank, California, volesse ammiccare al pubblico, sottolineando un profondo dissenso nei confronti dell'universo cheap della fantascienza anni '50 (mai troppo apprezzato - se non quando si prendeva un po’ meno sul serio) e prediligendo invece il sano orrore della Universal, con i suoi cavalieri (su tutti James Whale) o il sangue color porpora lasciato sgorgare nelle romantiche pellicole della Hammer. Detto questo, è necessario iniziare una ricognizione sulla nascita della fantascienza e sul suo sviluppo con l’avanzare degli anni, fino ad arrivare alla rilettura in chiave popular di Burton, e metterla in relazione con l’ambiguo eroismo truffaldino di Paul Verhoeven.

I “padri” del genere
È, come sempre in questi casi, merito di giovani appassionati se riviste del calibro di "Weird Tales" e soprattutto "Amazing Stories" fanno capolino nel panorama della cinematografia a stelle e strisce. La prima è incentrata sulla formulazione avveniristica di incontri con forme di vita sconosciute; la seconda, a cui prendono parte autori di sicuro avvenire - dal padre artistico de “Il mondo nuovo” Aldous Huxley a tante altre firme pulp - si basa principalmente su scene di lotte con animali e giganti preistorici. Il valore della scoperta e la corsa verso il progresso producono nell’uomo la prima grande spinta verso la celebrazione di un’era, con i viaggi nello spazio, le inquietudini, le paranoie e la paura dell’atomica. Ormai il terrore non emerge più dall’inconscio, abbarbicato in cima a castelli infestati da spettri o mostri della fantasia. L’altrove, tanto temuto, ha una nuova, precisa collocazione: il selvaggio “rosso” Est.
La Luna vista dalla Terra si presenta nelle forme semi documentaristiche di un’avventura di Heinlein tradotta per il grande schermo da Irving Pichel, Uomini sulla luna (1950), mentre i seleniti saranno sconfitti per mano del prode Radar Man, sorta di Superman inguainato in una buffa tuta spaziale (I conquistatori della luna, 1952, di Fred C. Brannon). Il salto di qualità giunge inaspettato con l’impiego di nobili artigiani: uno di questi, il produttore/regista George Pal, si aggiudica l’Oscar per Quando i mondi si scontrano (1951), diretto da Rudolph Maté. Ai seleniti invasori rispondono i metaluniani di Joseph Newman con Cittadino dello spazio (1954) - al quale farà poi riferimento anche il folletto californiano papà di Edward mani di forbice (1990). Ultime tappe da ricordare sono poi: l’esordio ne La Terra contro i dischi volanti (1956, di Fred Sears) del mago della stop-motion Ray Harryhausen - discepolo di Pal e punto fermo per le successive generazioni di cineasti - e il famoso La guerra dei mondi (1953) di Byron Haskin. Ispirato all’omonima satira sociale di Herbert George Welles, questo film si apre con un prologo filtrato da un commento tanto severo e rigoroso quanto grottesco: dopo una serie di informazioni tecnico scientifiche sulle condizioni di vivibilità dei vari pianeti della galassia, una voce fuoricampo conclude così: “...la Terra, temperata e dall’atmosfera nebulosa, è indice di fertilità”. Le tematiche affrontate (la cultura del sospetto nei confronti del diverso, la fede contro la scienza e il concetto di Male) consacrano dunque la nascita di un genere soggetto poi ad ogni forma di mutazione.

Mars Attacks!
Il film di Burton (1996) nasce dalla televisione, dai ricordi dell’adolescenza e da alcune bustine di figurine in regalo con i pacchetti di chewing-gum: dopo aver esaurito del tutto l’idea di portare al cinema l’età preistorica con la serie “Dinosaur Attack”, Tim Burton riesuma un'altra famosa serie di cards - "Mars Attacks", appunto - comparse per la prima volta nel 1962 e quasi subito vietate per il contenuto diseducativo e violento (oggi si parlerebbe di fenomeno splatter). I soggetti delle figurine presentano quadretti semplici e schematici, che raccontano dell’intrusione di esseri verdi nel “pacifico paradiso” e di umani in assetto di difesa, disposti a tutto pur di debellare definitivamente la minaccia. Ne viene fuori un gustoso esempio di parodia, non tanto intesa come omaggio ad un genere, ma piuttosto ad un'intera stagione ricca di efficaci trovate low-budget; un colorato pastiche in grado di divertire gli spettatori e in primis l’autore. Si raggruppino in tre circoli separati i ritratti/caricature, a volte eccessivi, presenti sulla scena: "uomini" (lo scienziato pavone e marpione, la conduttrice oca, il portaborse sessuofobo, l’intrallazzatore e la compagna "new age", la famiglia patriottica e il Presidente smargiasso); "outsider" (il pasticciere ritardato, la nonna arteriosclerotica, il pugile sfruttato e innamorato, la figlia del presidente); "marziani" (eredi incontrastati di un’arte dell’obbrobrio, del disfacimento iconoclasta e dall’anarchia sociale). L’azione si svolge nei vari teatri di posa, costituiti da diversi microcosmi: una White House da sit-com, una viziosa Las Vegas, regno kitsch d’avidità, un Kansas bifolco e fiabesco, e a chiudere una Grande Mela da prima serata. Per quanto la gente si sforzi ad accogliere con ogni mezzo gli ospiti originari di altri mondi, niente e nessuno riuscirà a distogliere i pestiferi invasori dall’idea che la Terra non è solo da conquistare, bensì da distruggere. Non ci sono regole, proclami o discorsi che riescano a fermare la furia annientatrice e il disegno dadaista di macrocefali usciti da dischi volanti di carta. Sono provocazioni infantili che identificano una bislacca generazione di alieni/ragazzacci intenti a cancellare simboli (la colomba della pace), pugnalare il Presidente (con un trucchetto alla Joker), rimpicciolire e polverizzare con balocchi da collezione le già minuscole menti umane, trasgredire dogmi e filosofie allo scopo di farsi beffa di tutto con messaggi privi di senso, immortalati da una tv sempre presente (analogamente a Starship Troopers). Come per Indipendence Day (1996), con il quale è stata già indicata una parentela, gli alieni non si comportano troppo educatamente - non siamo certo in presenza di una rappresentazione di pacifica convivenza di stampo spielberghiano. Ma il confronto fra i due film non può sussistere per due motivi: nella pellicola di Emmerich (scrive Roy Menarini nel saggio "Il cinema degli alieni") l’azione è volta al presente, impedendo così ogni sorta di citazionismo; secondo poi, la spinta nazionalista ed espansionista statunitense promossa dal regista e fondata “su concetti di tolleranza e multirazzialità come modello per altri Paesi”, è avulsa dalle logiche burtoniane. Gli esperimenti sulla frankensteinizzazione dei corpi, ossessione dell’autore, rispondono alla riflessione critica e polemica che vede l’umanità sconfitta da troppe debolezze - sessuali, economiche e politico/sociali - incapace di psicanalizzarsi e di arrendersi di fronte all’evidenza: la fine di un ciclo e l’alba di un nuovo giorno popolato da anti-eroi malinconici. L’unica arma per sconfiggere i disgustosi cervelloni infatti è la tristezza profonda di un vuoto d'amore, diffusa dalla voce del cantante country Slim Whitman su una galleria di emarginati immersi in un incontaminato scenario da Eden, sul quale governeranno i novelli Adamo ed Eva. Il tutto appare un pasticcio postmoderno dalla veste grafica sgargiante, un’esplosione cromatica unita al gusto della cinefilia trash anni Cinquanta.

Starship Troopers
Cresciuto nelle fucine del cinema europeo, l’olandese Paul Verhoeven è autore di notevole esperienza, sempre in bilico fra il gusto della provocazione, dello shock figurativo, ed una complessità umoristico-psicologica di fondo. Si cimenta con la fantascienza per ben tre volte: Robocop (1987) - la storia di un poliziotto cyborg, giustiziere cittadino di una società infernale - ottiene un successo inaspettato, anche se non privo di polemiche per l’eccessiva violenza mostrata; Atto di Forza (1990) - nobile re-invenzione del racconto del visionario Philip K. Dick (tra gli scrittori maltratti in vita e saccheggiati, senza ritegno, alla morte) - solletica quella critica sempre pronta a rilevare le castronerie di un Arnold Schwarzenegger in realtà mai così in parte - dai tempi di Terminator (1984) - come in questa occasione; ultimo cronologicamente viene Starship Troopers, considerato quasi all’unanimità tra i capitoli più insulsi e fastidiosi del genere. In effetti i motivi per convalidare questa tesi ci sarebbero tutti, a cominciare dalla fonte, il romanzo "Fanteria dello Spazio" (1961). Uno dei capisaldi della science fiction di tutti i tempi, è un'opera ultra reazionaria costruita con eccessiva crudezza e bellicosità narrativa, in un tripudio di afflati filo-fascisti. L'autore, Robert Anson Heinlein, è sempre stato chiacchierato per la sua ambigua posizione ideologica - non a torto Francesco Grasso lo definisce un conservatore anarchico.
L’arte del bizzarro cineasta Verhoeven però è tutta giocata su un sottotesto di raffinata ironia, in questo caso parodica, dove lo scandalo diventa l’elemento essenziale per filmare l’eruzione sanguinaria di una società impazzita. La storia del romanzo è ancorata ai concetti di militarismo, patriottismo, democrazia, ingegno calcolatorio e relazione fra maestro e allievo, secondo una poetica, cara a Heinlein, che gira sulla concezione-chimera di comunità future (siano destrorse come in "Fanteria dello Spazio" o pseudo-socialiste come in un'altra opera dello scrittore, "Il Patto") in cui solo l’individuo munito di forza e coraggio potrà far fronte a qualunque ostilità. L’intento del regista Verhoeven - anche se a tratti, soprattutto se si osserva il film con scarsa attenzione, la cosa può risultare inafferrabile - è invece un altro: schierarsi contro la presunzione occidentale. La storia si svolge in Sud America, precisamente in Argentina, dove un manipolo di giovani si contendono il potere e la supremazia eroica, tra balli scolastici e schermaglie amorose, né più né meno come in una soap-opera moderna (non a caso il teatro di scena è il Paese delle telenovele). Ogni gesto e pensiero è rivolto all’esasperante brama di partecipare alla prestigiosa Fanteria, anche a costo di abbandonare valori e famiglia e, una volta entrati, lasciare mani e braccia in pasto al nemico. Verhoeven solleva senza mezze misure il sipario sulle atrocità, offrendo lo spettacolo in sacrifico allo sbigottito/divertito spettatore: le scene d’addestramento rievocano momenti di delirante animosità, ricalcata nei toni da pellicole importanti come Full Metal Jacket (1987) o Soldato Jane (1997). Se però l’opera di Ridley Scott semina non pochi dubbi in merito ad una presunta comicità, qui il discorso sembrerebbe molto più aperto di quanto si creda: si pensi alla massiccia e invadente presenza mediatica. L’espediente televisivo diventa in questo caso uno strumento necessario ad immortalare l’evento, tra scoop selvaggi che finiscono in succulenti squartamenti e immagini di bambini felici alla sola idea di imbracciare fucili, nel segno di slogan quali “gente che costruisce un futuro migliore”. Una televisione che adotta una totale censura su tutto ciò che non è ideologicamente allineato, mentre le azioni più cruente si svolgono sotto gli occhi sciocchi e tronfi di un pubblico entusiasta. "È vero che nel film i terrestri sembrano animati da una ferocia senza precedenti, allo scopo di eliminare le immonde bestie (gli Aracnidi) del pianeta Klehndatu, ma è anche vero che, come in Mars Attacks! (film cui quello di Verhoeven si apparenta in virtù di molti fattori), la stupidità e la violenza degli umani è tale da preferire loro la chirurgica bellicosità delle blatte giganti", sostiene Menarini. Verhoeven allestisce un baraccone ben camuffato in cui la satira contro il potere si mescola a gustosi frullati di genere: la soap, il trash movie, la parodia del romanzo di formazione, ma soprattutto il western intergalattico. Alle navicelle di tutti i tipi si affiancano cavalcate stile rodeo in groppa a scarafaggioni, omaggi alle vallate fordiane (si presti attenzione alle formazioni rocciose, evidente richiamo alla Monument Valley) e formazioni difensive da fortino di frontiera. Il tendone si chiude sull’ennesima rappresaglia delle giovani ed impavide leve e dei maturi guerrieri, per nulla frastornati dalla strage di innocenti perpetuata in ogni conflitto: personaggi dallo sguardo sicuro e sorridente, fotografato ancora una volta con ambiguità ironica dalla macchina da presa.
Se dovessimo fare un balzo indietro nel tempo, confrontando con l'oggi questi due manifesti tanto denigratori della guerra e anti-propagandistici, entrambi schierati contro i marziani - e in particolare Starship Troopers, in cui dense nubi di cinica ironia offuscano volutamente ragionevolezza e comprensione - ci troveremmo a celebrare, attraverso una ricerca del tutto personale, l’età del rimpianto e della spontaneità.