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Non è facile avvicinare un
film come Zodiac, forse non è facile neppure
farselo piacere. I film sui serial killer, veri o inventati, non sono
così. Fincher ce lo ha insegnato, anche lui. Anzitutto, qui si
sa il finale, perché Zodiac è stato uno dei più
grandi e longevi accadimenti di cronaca nera della storia americana,
e già questo è un bel problema. Poi perché Zodiac
non esiste, ed è sempre buona cosa che in un thriller su un omicida
seriale lomicida esista. Invece no, perché non ha un volto
nella cronaca, e non lo ha neppure nel film. E non esiste neppure nel
peso drammaturgico degli eventi e delle psicologie, consacrando lultimo
film di David Fincher come lapoteosi della detection: pura investigazione,
nessuno spazio per personaggi che non siano i tre detective, il loro
morbo di svelare, le pene da pagare per questa ossessione. Di volta
in volta Zodiac è una voce senza volto, lombra di uno psicopatico
che impugna la pistola col silenziatore, un vestito da carnefice, col
cappuccio e il cinturone con il pugnale, la telefonata e le lettere
di uno psicopatico; poi è il sospetto numero uno, poi il numero
due, poi il tre e di nuovo luno. Si chiama Leigh, poi Chris, poi
ancora Leigh, poi non si chiama più. Non esiste perché
nessun appiglio è concesso allaudience per poterlo identificare,
e tentare il vero gioco proibito del serial thriller
parteggiare per il cattivo- è impossibile. Non lo puoi ammirare
come un coltissimo cannibale, non lo puoi temere come un John Doe castigatore
divino. Le sue dimensioni, immense inizialmente, vengono ritoccate di
continuo, ed egli resta temibile solo per le gesta perpetrate, ma nel
più minimale senso del termine. Nessuna logica, nessun senso:
uccide a caso, e questo vuol dire che non lo identifichi dalle sue vittime.
Modus operandi differente, scene del crimine mancanti di coreografie,
dunque nessun rito di morte a spiegarti la sua religione del dolore.
Infine, Zodiac è un cattivo comunicatore. Lancia minacce che
non mantiene, sembra appropriarsi della paternità di delitti
commessi da altri, i suoi codici o vengono decrittati da anziani appassionati
di enigmistica, o a tuttoggi ancora non sono stati decodificati
che è un ottimo esempio di cattiva comunicazione. E alla
fine sparisce nei trafiletti, come dice il poliziotto Dave
Toschi. Ma in realtà il killer dello zodiaco tra le colonne della
carta stampata ci era nato, una genitura imposta a forza di ricatti:
pubblicatemi o ucciderò ancora. Non avendo una personalità
sua propria, e conscio di questo, aveva forzato la biomassa mediatica
americana a costruirgliene una, un bozzolo da cui lui sarebbe poi uscito,
scomparendo allorizzonte, diventando semplicemente storia. Esistendo
solo in quanto evento mediatico, poteva sparire quando voleva, semplicemente
smettendo di interloquire attivamente. Toschi, Avery e Graysmith, ben
interpretati dal lavoro di Ruffalo, Downey Jr. e Gyllenhall ma
soprattutto Ruffalo- non riescono a trovarlo perché non lascia
scie se non nel mondo finto della carta e delletere. Tutto il
resto è lodissea delle prove e degli indizi, tra quello
che si sente di sapere cioè si spera - e quello che si
può dimostrare; tra le difficoltà di organizzare la prima
grande azione cooperativa tra diverse forze di polizia negli Usa e la
necessità di non farsi intrappolare dalle prove indiziarie o
dalla burocrazia giudiziaria; le capziosità delle perizie calligrafiche
e lavarizia degli indizi sul campo.
Ci sono pochi precedenti per il lavoro di Fincher, bisogna andare a
pescare, per prendere un titolo recente, La promessa
di Sean Penn, ma per il resto è prova di originalità e
anche di audacia. Oltre che di maturazione sul piano stilistico: non
cè Darius Khondji alla fotografia e non cè
Howard Shore alla colonna sonora, e si vede: nessuno rimpiange il cromatismo
madido di questi due grandi, ma per la prima volta abbiamo un Fincher
di cui non sentiamo la macchina da presa, un montaggio mimeticamente
millimetrico, sonorità interne alla storia, verrebbe da dire
endogene, e una composizione della figura scenica provvista
di una dinamica tutta interna al frame, lasciando al montatore solo
il dovere di transitare da un quadro allaltro, senza quella cinematica
ipernarrativa tipica del cinema fincheriano. Emerge in certi punti,
mi è sembrato, un tratto quasi disidratato nelle scelte visive
del regista, come se avesse usato un metodo sottrattivo per inventare
a nostro beneficio la realtà di Zodiac. Se leffetto
collaterale di questo approccio è lassoluta mancanza di
suspence (una scelta dovuta, dacché praticamente mai i protagonisti
della storia entrano in relazione con il killer, e di conseguenza non
sono mai esposti a pericolo di vita), cè da chiedersi se
lautore sia stato fino in fondo consapevole dei rischi in cui
un thriller acardiaco come Zodiac incorre. Perché
probabilmente a molti non piacerà. Non piacerà vedersi
raccontare la storia ultima dei serial killer (non lultima storia,
come provocatoriamente il regista ha dichiarato di voler fare), in cui
il cattivo è davvero un signor nessuno, il quale malgrado le
apparenze non corrisponde a nessuna delle iconografie che, bontà
loro, i grandi e piccoli cineasti hanno inventato per noi. Non piacerà,
però forse era il miglior progetto perseguibile se si vuole fare,
oggi, un film che racconti di omicidi seriali.
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