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The Pledge,
Usa, 2001
di Sean Penn, con Jack Nicholson, Benicio Del Toro, Helen Mirren, Robin
Wright Penn, Vanessa Redgrave, Mickey Rourke, Sam Shepard, Harry Dean
Stanton
Del Genere
Se pensiamo a ciò che si intende oggi per "cinema d'autore"
all'interno dei generi hollywoodiani codificati, ci accorgiamo immediatamente
di come tutti i più grandi registi contemporanei usino gli stilemi
più collaudati per "sabotarli" poi attraverso la propria
poetica, soprattutto visiva. Da John Woo a Steven Spielberg, da Tim
Burton a David Fincher, è ormai pratica comune "rispettare"
il più possibile una certa estetica ed un certo ritmo, usando
questo rispetto come passepartout per innestare l'esplorazione personale
delle possibilità del mezzo cinematografico. Questa rivisitazione
del concetto di "genere", che cerca di estenderne ed allo
stesso tempo di minarne il significato più classico, non è
che il punto di partenza del terzo film da regista di Sean Penn, perché
La Promessa si presenta come operazione a sé stante. La
particolarità saliente del film è infatti l'assoluta libertà
nel decidere il ritmo degli eventi, il dispiegarsi della trama, il fluire
della vicenda. Non rispettando nessun condizionamento di ritmo imposto
dalle regole del thriller contemporaneo, il film sceglie di raccontare
una storia attraverso i silenzi, i momenti mancati, la suspence che
abbandona le strade battute per arrivare quasi inaspettata da altrove.
In questo senso Penn sembra davvero aver fatto sua e riproposta al pubblico
la lezione dei grandi autori venuti fuori tra la seconda metà
degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, con l'omonimo (ma non parente)
regista Arthur in testa. In questo senso Penn sembra davvero aver fatto
sua e riproposta al pubblico la lezione dei grandi autori venuti fuori
tra la seconda metà degli anni '60 e l'inizio degli anni '70,
con l'omonimo (ma non parente) regista Arthur in testa. Molto calzante
ci sembra il paragone con Bersaglio di Notte, altro giallo che
sconfina nell'opera personale, ed in un certo qual modo racconta la
stessa vicenda umana che Sean ha voluto raccontare in La Promessa.
La capacità, inoltre, di usare una storia facilmente riconoscibile,
e rendere invece poi la narrazione del tutto adeguata ad un discorso
personale, sembra davvero una caratteristica delle migliori produzioni
dell'autore di Gangster Story. L'operazione è anche possibile
grazie alle straordinarie doti d'attore di Jack Nicholson, che qui presta
tutta la sua invadente fisicità ad un personaggio che, al contrario,
corre velocemente verso il disfacimento.
La profondità
Per costruire il suo discorso cinematografico, Sean Penn sbilancia tutte
le scelte visive verso l'elaborazione di una fotografia fatta di piani
molteplici e stratificati, una fotografia dalla rara incisività
di colore e contrasto, opera dell'inglese Chris Menges. Per materializzare
sullo schermo la dualità genere/autore di cui abbiamo parlato,
il regista decide di affidare alla profondità di campo il compito
di staccare, schiacciare, confondere, oscurare o sottolineare il rapporto
dei personaggi con l'ambiente. La sfida è quella di raccontare
un melodramma minimo - la decadenza di un uomo - con la tensione del
thriller che scorre sotterranea, poco visibile allo spettatore, ma che,
in momenti precisi, esplode ricordandoci che il principio della tragedia
è la lotta di una persona contro un fato incomprensibilmente
punitivo e imperscrutabile: quanto di più vicino al male c'è
nella figura del cattivo della suspence classica. Jerry Black, il personaggio
di Jack Nicholson, si muove in primo piano ma completamente fuori fuoco
nell'acquario triste della festa d'addio alla sua gloriosa carriera
di poliziotto, idealmente decentrato sia rispetto al mondo che sta lasciando
che a quello della vita "normale" che lo aspetta. E' un cliché,
quello del buon vecchio poliziotto che va in pensione - soppiantato
dalle nuove leve - pur essendo ancora in gamba, ma la qualità
della messa in scena consente all'emozione di arrivare diretta allo
spettatore, scavalcando quasi completamente i mezzi letterari e le necessità
verbali che sembrerebbero inevitabili nel trasporre sullo schermo il
romanzo di Friedrich Dürrenmatt. Così la figura di Jerry,
con la forza e la credibilità dell'archetipo classico,sembra
muoversi per tutto il film in questo stato sospeso fra la realtà
che scava e deforma i volti - impressionante quello segnatissimo di
Robin Wright -, quella realtà in cui si affacciano i camei di
attori "deglamourizzati" dalla vita (in primis Mickey Rourke,
ma anche Harry Dean Stanton, Vanessa Redgrave, Helen Mirren e Sam Shepard),
e la strana deformazione fantastica e infantile ma dal peso emotivo
assolutamente reale della visione dell'Uomo Nero che uccide i bambini.
La visione
Il film è proprio il racconto dello sbilanciamento e della caduta
incontrollata di Jerry nella semplicità di questo orrore bambino,
che il protagonista vive sia con gli occhi delle possibili vittime,
sia con la mente del poliziotto e dell'uomo maturo (quest'ultima un'ottica
forzatamente più cosciente e angosciante). Ancora una volta la
fotografia di Chris Menges sottolinea con precisione e calore questo
stato mentale del protagonista, come nella scena del ritrovamento della
prima vittima, dove le luci delle macchine della polizia saltano fuori
dal buio paesaggio di montagne innevate come fari semplici e inquietanti,
tracciando riflessi verticali sullo schermo e invadendo lo spazio diegetico
con un ulteriore strato narrativo astratto ed emozionante. Inizialmente
il racconto è calato con forza nella traccia del thriller violento
e cupo, con l'episodio esemplare dell'interrogatorio di Bernicio Del
Toro, dove la capacità comunicativa delle parole comincia ad
essere seriamente stravolta e snaturata per la necessità di ottenere
una definizione soddisfacente e consolante del Male. Poi il film sembra
man mano sbandare, fino a ci accorgiamo che già dall'inizio stavamo
navigando nel racconto della vecchiaia di un poliziotto, il cui volo
mentale e le cui emozioni riempiono inaspettatamente bene i nodi dell'azione.
E' la storia "semplice" di un uomo anziano che corre sul filo
impossibile della labile sanità mentale che ancora riesce mantenere,
dopo aver scelto, per necessità, di vivere contemporaneamente
fra la maturità intristita della vecchiaia e la visione intuitiva
limpida e forte di un bambino. Ma anche se non la si vede, la tensione
del Genere c'è sempre. Sta lì ad aspettare pazientemente,
guardando da lontano la strada e il drugstore isolato dove Jerry ha
deciso di esiliarsi per costruire una nuova vita. Aspetta nella mente
dell'ex poliziotto, che non è capace di vivere senza sussultare
ogni volta che una familiare nera si ferma per fare benzina. E non si
tratta di un delirio senile: le paranoie del vecchio investigatore sono
giustificate. La tensione e l'orrore del film stanno proprio nella tragedia
di un'intuizione geniale e giusta, rovinata dall'imprevedibilità
della vita e dall'impossibilità del protagonista di comunicare
la sua visione, la sua strategia e, in ultimo, il senso della sua vita
alle persone che ha intorno e che ama. Tanto che l'esistenza di Jerry
viene distrutta nonostante il suo amore sia puro e forte e la verità
sia dalla sua. E' il destino dei visionari che scoprono vie invisibili
e non riescono a tracciare sentieri che le svelino al mondo che hanno
intorno. La Promessa è la messa a fuoco particolare di
un modo narrativo antichissimo, la rivivificazione del senso profondo
dei contrasti interni ed esterni che generano il movimento del racconto.
E quest'operazione riesce a vibrare semplicemente e in maniera emozionante
sulla sola superficie delle immagini, mentre le parole punteggiano timidamente
il racconto con lo scopo necessario ma limitato di svelare l'inadeguatezza
e le impossibilità di un modello di comunicazione verbale sempre
più difficile da gestire.
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