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id., USA 2004 di Geoffrey Sax, con Michael Keaton, Deborah Kara Unger, Chandra West La produzione ci tiene a specificare che in realtà, lEVP è ben altro che la brillante premessa ideata da un gruppo di cineasti hollywoodiani col proposito di realizzare un thriller a sfondo paranormale come White Noise. Niente di più corretto. Infatti alla fine, sotto lo stagnante coté del logoro thriller-sofisticato statunitense di pura confezione (fotografia patinata ed anonima, bric-a-brac dello shocker più programmatico che esista, egemonia dellhyper-foley nella colonna rumori, introspezione detichetta del materiale umano finto-borghese), lidea motrice del lungometraggio, lunica degna e veramente interessante, più che dimostrarsi una premessa risulta poco più di uno specchietto per le allodole di un utile tornaconto di distribuzione (basti pensare alla sfacciataggine del trailer, montato con immagini di cronaca totalmente estranee al racconto del film). LEVP (Electronic Voice Phenomenon), quello che permette al vedovo Jonathan Rivers (Michael Keaton) di ascoltare la voce della moglie scomparsa tra le frequenze instabili del televisore domestico, evapora in breve tempo come un effetto speciale di facile smaltimento, che soffoca e geme, sprecato in un modulo narrativo telecomandato. Magari il punto di partenza non era dei più originali: sulle spalle dellesordiente Geoffrey Sax grava, su tutti, il peso di un classico moderno come Poltergeist. Ma chiaramente il regista inglese, di formazione televisiva, non ha nessuna intenzione di affrontare il benché minimo confronto, e se il film della coppia Hooper-Spielberg riscattava una certa ingenuità di sceneggiatura sporcandosi le mani con lhorror meno rassicurante, qui al massimo si cerca conforto tra calligrafie shyamalaniane, alcune veramente rasenti il plagio formale (sorvolando sulla più lieve derivazione contenutistica, dato che una caratterizzante atmosfera della pellicola sembra proprio essere uscita fuori da uno degli snodi principali del grande lungometraggio desordio del regista indiano). E tra premonizioni rubate alletere, disgrazie sventate e fardelli medianici involuti, Sax palesa a più mandate il referente deccezione, il Cronenberg minore de La Zona Morta, per poi tracollare sui piedi dargilla di una chiusura che vorrebbe confondere, orientare al testo aperto, ma che in fondo tradisce soltanto unincertezza imbarazzante. Non prima, oltretutto, di una stuccante sferzata new age (i tre spiriti maligni che puniscono il protagonista) ormai inedita sin dai tempi di Ghost. Lunico, sincero sentimento che unoperazione di tale falsità e vaghezza riesce ad infondere è quello di rammarico per un Keaton ancora una volta sprecato da un copione inadeguato, incapace di liberare un attore di grande prestanza dal limitante caratterismo impostogli dal cinema dinizio anni 90. Con lui se ne va il solo motivo dinteresse di un istant-thriller smorto, impacchettato con professionalità per battere il ferro ancora caldo del filone mediatico risollevato dal revival americano di The Ring. |