United 93

L’insostenibile cittadinanza
di Ferdinando Cotugno

 
  id., Francia / GB / Usa, 2006
di Paul Greengrass, con Chrstian Clemenson, Trish Gates, Polly Adams


United 93 compie uno dei passi decisivi del lento processo di avvicinamento della cultura americana all’11 Settembre. Il film di Paul Greengrass, regista non nuovo ai cunicoli angusti della storia recente (vedi Bloody Sunday), racconta una delle pagine più oscure e controverse dell’attacco che colpì gli Stati Uniti, quella scritta sul volo 93 della United, decollato da Newark per San Francisco, e caduto in Pennsylvania, 240 chilometri a nord di Washington. E’ opportuno dire che chi ha pensato, scritto, e diretto il film non poteva che affrontare questa storia con una versione dei fatti molto precisa, caricandosi di una responsabilità tanto grande quanto ineludibile. Quello che è accaduto sul quarto aereo è un mistero. La Commissione governativa sull’attacco dell’11 Settembre ha dato una risposta, così come Greengrass ne ha data una. La verità riposa i morti, e quello che resta ai vivi sono congetture e ipotesi, più o meno coraggiose, più o meno dettagliate o funzionanti. Il primo pregio di United 93 - che, va detto subito, è un film bellissimo - è di prendersi tutte le responsabilità del caso, senza lasciare angoli bui sul dispiegarsi e sul precipitare della vicenda. Se sali su quell’aereo, devi farne tutto il viaggio. La sceneggiatura e la regia di Greengrass non chiudono mai gli occhi, almeno fino alla fine del viaggio, quando devono chiuderli per non riaprirli più. United 93 aderisce al destino dei suoi eroi.

Tutto comincia con un motel, una preghiera, una lingua straniera. In questo film ci sono i buoni, e ci sono i cattivi. I cattivi cominciano pregando, i buoni volevano solo prendere un aereo. Magari non erano così buoni, forse qualcuno tradiva la moglie, qualcun altro aveva in ballo una piccola truffa, o si dimenticava di dichiarare tutto il suo reddito al fisco, o non gliene fregava un cazzo di separare la plastica dalla carta nella sua spazzatura di casa. Ma in United 93 loro sono i buoni perché, al di là di ogni gesto di eroismo (ce ne saranno tanti), quella mattina avevano solo intenzione di prendere un aereo. I cattivi, dal canto loro, sono esseri umani. E’ un miracolo di equilibrio molto raro, quello che riesce al film di Greengrass, che dovrebbe essere appannaggio non solo della fiction, ma soprattutto della giustizia, della politica. I quattro attentatori che salgono sull’aereo, appendici sacrificali e assassine del piano che avrebbe cambiato il volto del mondo, sono un virus, un’infezione, che marcirà le ali del volo 93 e spezzerà 44 vite umane. Sono anche quattro ragazzi, martiri spaventati, fanatici colmi di paura, addestrati ma vagamente incompetenti. Il loro capo, che si chiama Ziad Jarrah, ha la faccia pulita da studente di scuola d’elite, è quello che sa pilotare l’aereo, che da i tempi e gli ordini del dirottamento, ma è anche il terrorista maggiormente preda di esitazioni, l’anello debole, quello che non cederà mai ma è sempre sul punto di cedere, da un punto di vista letterario un perfetto antieroe.

La narrazione di United 93 funziona come un costante rimpallo tra quello che succede sull’aereo, e le torri di controllo, che progressivamente si rendono conto di quello che sta succedendo, e i centri di potere militare, bloccati dalla burocrazia e dalla difficoltà di concepire il mai nemmeno immaginato. L’unità temporale rispettata è quella dello schiudersi del disastro, dall’alba dell’11 Settembre fino al momento in cui la tragedia è compiuta, senza nessun ripensamento, nessun flashback, nessun salto in avanti. L’11 settembre esiste solo l’11 settembre. Un giorno che si apre soltanto come un giovedì qualsiasi di fine estate. La normalità di un giorno qualunque per noi spettatori è un lusso, perché il lungo ma impercettibile climax che prelude lo scatenarsi della violenza è fatto di gesti, parole, piccoli progetti, che non saranno mai più uguali, che saranno gli ultimi, per sempre. C’è un’insostenibilità, quella dei “ti chiamo quando arrivo” o “ci vediamo stasera”, che è forse la cifra stilistica delle scelte del film, e che è in qualche modo condivisa anche dal “ti amo” straniero - e in qualche modo alieno - del terrorista, prima di imbarcarsi sull’aereo.

La posizione di United 93 è in qualche modo dolorosamente privilegiata dal corto circuito della narrazione con la realtà. E’ tutto vero, è tutto attuale, è tutto recente, e si piange e ci si affeziona e si ama il film anche - ovviamente - per questo. Le storie vere, però, sono scivolose, e più grande e terribile è la storia vera, più scivolosa è la superficie, Greengrass sfrutta la propria rendita di posizione con qualcosa che definirei nobiltà, o più convenzionalmente pudore. C’è una pulizia che pervade il racconto, che è frutto di chiarezza di sceneggiatura e grandissimo rispetto nei confronti della vicenda, dei suoi protagonisti, del loro terrore e del loro coraggio. Una motivazione è sicuramente da rintracciare nel metodo di lavoro scelto da Greengrass, che ha previsto un’ampia e consapevole partecipazione dei parenti delle vittime, in qualcosa che – azzardando - potrebbe quasi somigliare a un rituale di elaborazione collettiva di questo lutto. Una reazione comune per United 93 è che si piange. L’11 Settembre ha colpito al cuore buona parte dell’umanità, lasciando però paradossalmente inespressa la parte più umana della sofferenza che ha generato, troppo spettacolare, troppo eclatante, troppo parte della Storia del mondo e dell’immaginario collettivo, per appartenere davvero a qualcuno la cui vita non sia stata direttamente toccata da quegli aerei. Come alcuni dei corti del film collettivo 11’09’01, come il romanzo molto forte, incredibilmente vicino, United 93 conferisce invece agli esseri umani la cittadinanza emotiva di questa immane tragedia. Un merito non da poco, incastonato come una perla in un film bellissimo.