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l'Umanità
L'humanité, Francia 1999
di Bruno Dumont, con Emmanuel Schotté, Séverine Caneele, Philippe Tullier, Ghislain Ghesquère, Ginette Allegre, Daniel Leroux

Salviamo "l'Umanità" (da Dumont)!
recensione di Adriano Ercolani e Luca Persiani



Quando, all'inizio dell'anno, è uscito nelle sale l'Umanità nella versione ridotta dalla censura italiana, abbiamo deciso di non andare a vederlo, indignati: Vergogna! Libertà di espressione! Al rogo ogni censura!
Finalmente ora ne esce la versione integrale. Subito corriamo al cinema, con l'entusiasmo del bambino a cui viene restituito un gioco proibito.
Due ore e mezzo dopo guardiamo questo gioco inutile con profondo disgusto, indignati: Vergogna! Legione straniera per Bruno Dumont! Adesso capiamo perché la censura si è accanita contro questa pellicola: altro che influenza politica del Giubileo! Si sono vendicati per aver dovuto assistere ad un film che riscopre "il valore della noia come soggetto artistico" (Orson Welles). Quello che ora ci chiediamo è: perché limitarsi a poche inquadrature? Avrebbero potuto farne un corto di 20 minuti spazzando via un paio d'ore.
Il regista Bruno Dumont sceglie l'ardua via della sottrazione al film di tutto quello che è appunto filmico: attori che non sono attori, storia senza storia, musica "non narrativa" ma di puro contorno, montaggio e regia che quasi non vogliono aver nulla a che fare con la vicenda. Per forza di cose, a furia di togliere non rimane nulla. La scelta di scarnificare al massimo la messa in scena per renderla in un certo qual modo "ascetica" è stata paragonata da molti critici all'idea di cinema di autori come - e passi pure - Maurice Pialat, e di un maestro come Robert Bresson. In quest'ultimo caso non possiamo rimanere in silenzio: la caratteristica fondamentale che ha reso immortale il grande autore da poco scomparso è proprio la capacità di non mettere in mostra, di non sottolineare il proprio stile e la propria poetica di “neutralità” (se così possiamo chiamarla). Dumont invece insiste fino all'eccesso nell'ostentare la sua idea, e cade nella presunzione di voler imporre il proprio cinema senza tener conto delle più elementari regole dettate dalle esigente filmiche, soprattutto per quanto riguarda la narratività di un'opera.
Proviamo a raccontarvi la storia de l'Umanità: Pharaon DeWinter, un ispettore di polizia talmente traumatizzato dalla perdita di moglie e figlio da aggirarsi rincoglionito per tutto il film, si trova ad indagare sullo stupro ed assassinio di una bambina. Fino a qui la premessa sembra più che accettabile, e la messa in scena scarnificata ci intriga non poco. Nell'ora successiva di pellicola, l'ispettore Pharaon sbava dietro alla sua vicina di casa, una squadrata operaia che si accompagna ad un ragazzo burbero e sprezzante in pubblico, ma toro sotto le coperte. Pharaon assiste, sulla soglia della casa di lei, al selvaggio accoppiamento dei due piccioncini sul tappeto del salotto; dopo ciò, i tre vagano insieme per le zone circostanti (siamo in Bretagna), tra ristorantini, torri medievali e gite al mare, senza che accada assolutamente nulla. Poi il poliziotto, che a quanto ne capiamo lavora quando gli pare e con gli orari che gli pare, si ricorda del caso in cui è impegnato ed ogni tanto accompagna il buffo commissario incapace ed incazzato ad interrogatori senza altro esito che far sfigurare i due già avvilenti figuri. Intanto il nostro novello Forrest Gump (perché questi sono i livelli mentali del personaggio) sbroglia sit-in di scioperanti con il solo magnetismo dello sguardo, litiga debolmente con la madre (che vive insieme a lui), beve quantità industriali di cappuccino, e coltiva il suo bell'orticello dove ogni tanto trova pure il tempo di compiere qualche occasionale miracolo, come librarsi in aria di qualche centimetro per ammirare il panorama.
E' a questo punto che ci sono venute le allucinazioni, ed abbiamo visto dietro di lui Tom Cruise che compiva spettacolari evoluzioni motociclistiche con una Triumph Speed Triple (995 cc 108 hp), rallentato in una sinuosa danza pagana...
Perdonateci.
Ma continuiamo con l'avvincente narrazione: la seguente ora di film gira intorno all'immobilità di Pharaon, che non combina niente con l'operaia, non trova alcun indizio importante per il caso, non cambia espressione neppure quando soffre, non cambia giacca sopra le innumerevoli camicie, non parla con i testimoni inglesi che è andato ad interrogare oltremanica. In compenso l'altra eroina della pellicola, la ragazza di cui in nostro uomo (?) è perdutamente innamorato, si rende personaggio portante di tutta la vicenda: ci mette due ore per decidere di scioperare, poi sciopera per cinque minuti, - ammaliata dai modi ferrei e dallo sguardo di ghiaccio di Pharaon -, trova addirittura il tempo di uscire tre dozzine di volte con il suo ragazzo-bastardello e di farci del cruento sesso selvaggio sempre nel letto di casa e con poche varianti della posizione del missionario. La ragazza si offre addirittura esplicitamente al legnoso Pharaon, il quale rifiuta goffamente e viene giustamente da lei mandato al diavolo.
Nulla è accaduto per due ore e un quarto, e di conseguenza nulla è stato determinato (tranne che Pharaon sa volare ma non sa fare il poliziotto né conquistare le ragazze) ed ecco che improvvisamente il colpevole piomba nel commissariato, grazie ad un onnipotente e invisibile deus-ex-machina (Dio? Un montatore stufo di lavorare all'opera?). Tutto si risolve e il nostro eroe, un autentico, immobile sant'uomo (per vocazione o per costrizione?), bacia ardentemente il pedofilo e prende su di sé tutte le colpe del mondo. La nostra empatia ha raggiunto il culmine e non possiamo evitare di urlare nella sala deserta: bravo.
Ora ci chiediamo: c’era bisogno di farci vedere due ore e mezza di cotanta trama, inventarsi un simile plot giallo e risolverlo senza alcuna giustificazione logica o psicologica, il tutto per arrivare a questa scena-madre dal vago sapore di socialismo reale?
Come avrete capito la visione de l'Umanità , opera da cui era lecito aspettarsi molto, ci lascia sconcertati: a prescindere dalla (inutile e non condivisibile) coerenza stilistica di Dumont, è impossibile capire come questo film sia stato trattato come un capolavoro da parte di molta critica europea. Ancora più discutibili i tre premi ottenuti a Cannes ’99 (miglior attrice, miglior attore, gran premio della giuria), se non altro per la presenza in concorso di opere non solo assai più riuscite e meritevoli, ma addirittura capaci di non ottundere totalmente l'attenzione dello spettatore. Vogliamo ricordarne alcune? Una Storia vera di Lynch, Ghost Dog di Jarmusch, Limbo di Sayles, l ’Estate di Kikujiro di Kitano…
L'Umanità è il prodotto più rancido e decadente di quella presunzione autoriale che sostiene molto del giovane cinema francese contemporaneo, un tentativo disastrosamente mancato di creare atmosfere ed emozioni tramite l'ordinarietà di volti e luoghi, contando esclusivamente sulle spuntate armi di una messa in scena che deliberatamente ignora ogni compromesso narrativo spettacolare per crogiolarsi esclusivamente nelle sue deprimenti scelte estetiche.