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the Straight
Story, USA / Francia / GB, 1999
di David Lynch, con Richard Farnsworth, Sissy Spacek,
Harry Dean Stanton, Everett McGill, James Cada, Sally Winter
Due illuminazioni colpiscono Alvin Straight.
Una, quella vera e propria prodotta da un lampo, abbaglia il suo viso
nell’istante in cui viene a conoscenza dell’infarto capitato a suo
fratello. Siamo testimoni dell’insorgere della sua consapevolezza
per la quale prenderà la decisione di intraprendere un viaggio bizzarro,
per ricongiungersi a Lyle dopo oltre dieci anni.
Ma la percezione dell'azione da compiere
si era già insinuata nel suo animo quando in una calda mattinata estiva
si era trovato riverso sul pavimento, senza nessuno a cui chiedere
aiuto. La coscienza della prossimità della propria morte e la notizia
di Lyle gli spalancano la strada di un viaggio iniziatico, di preparazione
alla sua dipartita.
Un viaggio paziente e ostinato con il mezzo
di trasporto più lento a disposizione, condotto, stranamente trattandosi
di Lynch, sulla superficie visibile e solare dell’America più America
possibile e cioè il Midwest, piuttosto che nei meandri dissimulati
della stessa; mentre interiormente il vecchio agricoltore procede
parallelamente a regolare i conti con la propria vita e con la Vita
in generale.
Alvin rivive di riflesso, via via accostandole
come in un itinerario paratattico, tutte le fasi dell’esistenza: il
momento della nascita nell’incontro con la ragazza incinta spinta
da lui ad oltrepassare la soglia dell’età adulta contro la quale ogni
fuga è vana; la gioventù dei ragazzi del campeggio ai quali chiarisce
in due parole l’aspetto più fastidioso della vecchiaia; l’età adulta
stessa, imbattendosi in una famiglia quando il suo tagliaerbe si rompe;
la vecchiaia, condividendo con un coetaneo le brutture e i rimorsi
dei ricordi bellici della Seconda Guerra Mondiale; ed infine la morte,
sostando di notte in un cimitero e dialogando con un sacerdote, in
un confronto pacifico tra buonsenso laico e fermezza ecclesiastica.
Il tutto prima di trovarsi di fronte alla
catapecchia di suo fratello Lyle.
Il terrore del fallimento della propria esistenza
fondata su dei valori ben precisi è condensato nel tono di voce di
Alvin che chiama per due volte Lyle fuori dall’abitazione.
Interlocutorio la prima volta; straziante
la seconda, che precede il suo specchiarsi finalmente nell’aspetto
emaciato del fratello che magicamente sembra apparire familiare anche
a noi: quello sguardo burbero, quel faticoso e spazientito muoversi
sul maledetto deambulatore non lasciano adito a dubbi: quel tipo non
può che essere fratello di Alvin, il vecchio testardo che abbiamo
accompagnato fin nel Wisconsin.
La paura di non arrivare in tempo la si legge
per tutto il lento, dilatato viaggio, negli occhi, nei gesti, nelle
scelte del superlativo Richard Farnsworth.
La sua impassibilità (straight-face) così
come le sue esitazioni affannose sottolineano la delusione assopita
dell’uomo nel pieno della consapevolezza dell’ineluttabilità della
morte.
Ma nulla sembra turbarlo nelle sue scelte.
Nemmeno per un momento Alvin tradisce la sua filosofia di vita; nemmeno
per un momento rinuncia a seguire la sua personale strategia di sopravvivenza,
ma fila dritto (straight) e composto verso il suo obiettivo unendo
idealismo e pragmatismo, il senso pratico della vita alla coerenza
di non tradire mai se stessi, la sacca con i propri valori, il senso
personale del Tempo, il proprio, austero adattamento all’esistenza.
Come se fosse irrinunciabile trovarsi al cospetto del grande passo,
nella pura e assoluta presenza della propria identità.
Per questo usa l’unico mezzo che ha; per
questo rifiuta un passaggio più veloce, nonostante che la lentezza
del suo dirigersi potrebbe vanificare il motivo del viaggio stesso.
E per questo non può permettersi di lasciare conti in sospeso, né
quelli economici, né i sensi di colpa. Né tanto meno può andare contro
i suoi punti di riferimento su cui ha costruito se stesso, morendo
senza riunire quei pezzetti di legno robusti che costituiscono la
sua idea di famiglia. Quindi Alvin, che di decisioni drammatiche sembra
intendersene, si rimbocca le maniche, calza ben bene il cappellaccio
da cowboy e via avanti, con le idee ben chiare in tutto: "Una Miller’s
Light" chiede assetato al bar.
Nessuna esitazione per chi ha avuto tempo
di riflettere. Per chi rappresenta il Passato di una nazione; per
chi ha una diversa concezione del Tempo e di come goderselo. E quindi
si accende il suo sigaro e ne gode paziente la sacralità. Quello vuol
dire fumare, non l’esile, asettica sigaretta di coloro che il tempo
vorrebbero ucciderlo ma dal quale sono inevitabilmente decisi.
E come Alvin, anche Lynch mira a congiungersi
con un tipo di cinema a lui lontanissimo, svoltando in modo perentorio
dopo il turbinio di <Strade perdute>, come se avesse colto un’altra
vocazione, complementare, fraterna, e volesse catturarla piano piano,
ragionandoci, adoperando una lentezza di sguardo che favorisca la
riflessione, che indugi sugli stati d’animo di un vecchio agricoltore,
attraverso i cui occhi recuperare una dimensione di Vita/Cinema.
E gli occhi guizzanti e acquosi di Straight
e quelli della macchina da presa si cercano, si osservano e si interrogano;
sembrano prendersi per mano per abbeverarsi degli spazi sconfinati
del territorio americano e quelli altrettanto incalcolabili dell’esperienza
di vita di un uomo giunto al tramonto.
Tutti coloro in cui Alvin si imbatte lo guardano
sconcertati con accenni ingenui di ironia; come altrettanto sconcertante
è, per noi, scoprire un percorso inusuale per Lynch, alle prese con
una velocità con cui non l’avevamo mai visto viaggiare.
Lento è Alvin, lento il tagliaerbe, e anche
il mezzo cinematografico che si mette a disposizione del personaggio
aderendo alla sua necessità, sovrapponendosi precisamente alla sua
saggezza e al suo moto interiore.
La visione prodotta si ribella alle imposizioni
estetiche dei mass-media trovando un proprio ritmo incessantemente
contemplativo. Ma il contrasto con le imposizioni non avviene all'interno
del film, dove non c’è traccia della frenesia del villaggio globale.
Lo si sente premere lo schermo fuori campo mentre Lynch, così come
il vecchio Alvin, ci offre la sua sedia vuota e ci invita seraficamente
a guardare le stelle, astraendoci da ogni tipo di aspettativa commerciale.
E ci troviamo davanti a dei vecchietti in
jeans e camicia a scacchi che si fanno beffe delle escandescenze,
delle isterie, magari quelle di una donna che investe un cervo al
giorno per recarsi di corsa al lavoro. Questi individui, come Alvin,
sembrano vivere nella dimensione ultima ed ideale, come se fossero
a conoscenza di un codice segreto la cui parola d’ordine risiede in
semplici occhiate cariche di sapere o in cenni di saluto quando si
imbattono l’uno nell’altro, per la strada, ognuno sul suo veicolo
e con il suo peso da trasportare.
Ciò che disorienta ma al tempo stesso inspiegabilmente
avvalora e impreziosisce il discorso di Lynch è l’assoluta, sobria
banalità del tutto. In questa direzione sembrano confluire i resoconti
di Alvin, le sue perle di saggezza; come se avvenisse, in un uomo
in quella situazione, una depurazione dal superfluo e rimanesse una
sorta di nucleo contenente tutte le virtù più convenzionali, da cui
ricominciare daccapo.
Un’ovvietà spiazzante ma, anche e soprattutto
per le necessità del cinema attuale, un’idea folgorante.
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