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the Tracker,
Australia, 2002 di Rolf de Heer, con David Gulpilil, Gary Sweet, Damon Gameau, Grant Page, Noel Wilton 1922: un nativo australiano è la guida di tre poliziotti all’inseguimento di un aborigeno, accusato di aver ucciso una donna bianca. Durante il viaggio il gruppo si scoprirà sempre meno compatto, e l'insensato massacro di molti indigeni, voluto dal capo della spedizione, provochera grossi cambiamenti in alcuni componenti e una sostanziale mutazione delle posizioni di potere. Minimalista al punto tale che i personaggi non hanno nome ma vengono chiamati in base alla loro funzione, e che nella scenografia non compare nulla che non si trovi nell’outback australiano dove si svolge l’intera vicenda, the Tracker, attraverso un sussurrato discorso sulla giustizia, accenna splendidamente alla condizione umana. Partendo da questo argomento caro a Rolf De Heer, come nel suo forse troppo pretenzioso ma convincente Bad Boy Bubby, il film spinge lo spettatore ad un’inevitabile riflessione, attraverso la sincerità delle immagini accompagnate dalla limpidezza della fotografia. Fondamentale l'ottima interpretazione di David Gulpilil, fatta di sguardi che da soli svelano le intenzioni del personaggio e danno vita ad una figura di guida aborigena misteriosa e consapevole. Una guida che costringe tutti a riflettere sull'’interpretazione del diritto e della ragione, in una situazione cui la caccia all'uomo diventa occasione per la rivelazione della propria identità. Il concetto di giustizia viene messo in scena, con diversi livelli di maturità e consapevolezza, attraverso i personaggi. La guida, conoscendo la cultura dei bianchi ma vivendo la sua condizione di aborigeno, grazie alla sua abilità riesce a svelare ad uno dei tre inseguitori -il giovane segugio - quali siano i due modi di concepire la giustizia: quello maturo e cosciente delle diverse realtà che ci circondano e quello cieco, derivante dall’odio per ciò che ignoriamo. La colonna sonora, composta di Graham Tardif e cantata da Archie Roach, è perfetta per descrivere, all'interno del discorso stilistico di De Heer, un viaggio dai peculiari contorni western, e per trovare una misura narrativa adatta a focalizzare l'Australia com’era prima che cominciasse l’integrazione dei nativi, riportando alla memoria senza forzature il loro genocidio. L’armonia delle poche note impiegate da Tardif agisce da "ponte" nelle numerose ellissi visive operate nelle scene in cui vengono uccisi gli aborigeni, sintetizzate - con una scelta estrema - in modo statico dai quadri di Peter Coad. L'operazione ha così un'efficacia particolare che ricorda le ballate di Robbie Robertson per i nativi Americani. L’impegno realizzativo per questo film australiano è passato per dieci anni di ricerca di una produzione, nonostante i bassissimi costi. E la forza di the Tracker sta proprio nella semplicità della messa in scena, che acquista un valore aggiunto se messa a confronto con operazioni multimiliardarie e molto costruite che troppo spesso non hanno alcuna capacità di comunicare emozioni e stimolare riflessioni. |