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Sweeney Todd
- il diabolico barbiere di Fleet Street

Sweeney Todd
- The Demon Barber of Fleet Street, Usa / Gb, 2007
di Tim Burton, con Johhny Depp, Helena Bonham Carter, Alan Rickman, Timothy Spall, Sacha Baron Coen

L’ultimo approdo dell’icononauta morale
recensione di Alessandro Gambino



Sweeney Todd - il diabolico barbiere di Fleet Street è tratto dal celebre musical del pluripremiato Stephen Sondheim, a sua volta reinvenzione di un successo letterario-teatrale di genere grandguignolesco della meta dell’Ottocento.
Londra, XIX secolo. Benjamin Barker, dopo 15 anni di esilio in seguito a una ingiusta condanna inflittagli dal crudele giudice Turpin con l’intento di rubargli la bellissima moglie Lucy, ritorna a Londra con una nuova identità in cerca di vendetta. Trasformatosi in Sweeney Todd, si stabilisce nella nuova bottega da barbiere ma il servizio offerto ai clienti non prevede lamentele perché il suo rasoio colpisce in modo definitivo e offre il condimento ai pasticci di carne sfornati dalla fedele Mrs. Lovett. Dopo avere scoperto che Turpin ha deciso di sposare la figliastra, in realtà figlia di Sweeney, il diabolico barbiere di Fleet Street accelera l’organizzazione della vendetta finale che si abbatterà sull’ignaro giudice e sul viscido messo Beadle.
Se Tim Burton fosse vissuto nella Hollywood classica, il gruppo dei jeunes turcs dei Cahiers du Cinema non avrebbe esitato neanche un momento nel riconoscergli lo status di autore come fu per Howard Hawks, Alfred Hitchcock e tutti quei cineasti americani all’epoca snobbati dalla critica tradizionalista francese. Non che Burton sia misconosciuto, anzi, tutt’altro, visto il riconoscimento mondiale ottenuto all’ultima Mostra di Venezia con il Leone d’Oro alla carriera. È però indubitabile che Burton sia, al pari di David Lynch e David Cronenberg, uno dei cineasti contemporanei la cui opera segue fedelmente le coordinate di una poetica coerente e omogenea, fondata su una cifra stilistica contrassegnata da un’assoluta riconoscibilità, che rielabora continuamente al suo interno tutte le ossessioni, i topoi estetici e le tensioni profondamente etiche tipicamente burtoniani: la miscela di tenera malinconia e gusto macabro, il rapporto antinomico fra amore e morte, luce e oscurità, bianco e nero e colore, normalità e diversità, padre e figlio. Come il sublime Lynch, Burton crea delle opere-mondo. Ma, a differenza del regista di INLAND EMPIRE queste opere-mondo si autogenerano a partire da un’immagine fortemente mitopoietica che contiene già in sé l’eidos, la forma archetipica dell’universo fiabesco che verrà creato. E come David Cronenberg, i corpi dei suoi personaggi sono spesso dotati di protesi artificiali, anche se il prolungamento meccanico degli arti in Burton non ha il sapore religioso-antropologico di Cronenberg (chissà come sarebbe stato La mosca se fosse stato diretto, come inizialmente previsto, da Tim Burton), né l’entusiastico furore iconoclasta del postmoderno cyberpunk Tsukamoto. Ma diventa il pretesto per una riflessione etica sui concetti di identità e diversità. Rispetto però a Edward mani di forbice, in cui le lame innestate nelle mani del protagonista erano l’epifania della sua condanna tragica all’impossibilità del contatto con l’altro, in Sweeney Todd i rasoi assolvono a una funzione diversa e, per certi versi, più attenta ai sommovimenti culturali di un contemporaneo che, nella sua crisi profonda, sembra regredire a un evo fondato sulle leggi tribali: la vendetta è, nell’etica essenziale di ogni struttura favolistica, l’unica risposta possibile al torto subito.
Il tono cupo della vendetta che risiede nelle viscere oscure del personaggio, dissociato e mascherato come Bruce Wayne/Batman, informano l’ambiente esterno, riflesso totale dell’animo del protagonista impersonato dall’attore, ormai vero feticcio burtoniano, Johnny Depp. Come ogni melodramma che si rispetti, la struttura del film è stabilita dalle musiche, infatti, ma, prima di tutto, dalla poderosa scenografia creata da Dante Ferretti, senza alcun ricorso al green screen ma recuperando quella materialità artigianale che se da un lato rimanda alla cartapesta della scena degli spettacoli dell’Ottocento, dall’altro viene rinfrescata dalla stilizzazione, che guarda alle opere di animazione di Burton, e dal refresh digitale. Burton, in questo modo, sperimenta sul tessuto vivo del film un impasto di vecchio e nuovo, del cinema e del suo cinema, rimanendo fedele allo sprito pop della propria estetica. Se la struttura è quella del melodramma, l’azione rimanda al Grand Guignol. Nel suo viaggio all’interno della storia del cinema, così, torna ancora più indietro del Coppola di Un’altra giovinezza, frugando in quella zona archeologica pre-cinematografica che ha preparato l’avvento della settima arte: quei grandi spettacoli popolari in cui l’azione, innestata sulla maestosità scenografica, è indissolubilmente legata alla musica (il melodramma) e in cui l’effetto speciale lega l’andatura dello spettacolo con lo stupore e il piacere spettatoriale (il Grand Guignol, appunto). Come Coppola, Tim Burton è l’altro grande icononauta del nostro tempo. Soltanto, l’autore di Sweeney Todd predilige i territori limitrofi, come in questo caso, o marginali della storia del cinema: così è stato, per fare alcuni esempi, con Big Fish (il mito fiabesco di Oz), la Fabbrica di cioccolato) (remake di un film commerciale in cui s’inserivano i germi eversivi della controcultura e che Burton fa deflagrare in tutta la loro potenza lisergica e visionaria); con Il mistero di Sleepy Hollow ed Edward mani di forbice (l’archetipo del mostro/diverso, uno dei più ricorrenti in tutta la storia del cinema); ma, soprattutto, con Ed Wood e Mars Attacks (il doppio nostalgico omaggio alla golden age del cinema americano, gli anni Cinquanta, ma nelle sue pieghe remote, quelle del cinema sci-fi di serie b e quelle di serie z del “peggiore regista della storia”). Il nostro viaggiatore nel tempo reversibile dell’immaginario cinematografico si abbandona ogni volta al piacere e allo stupore della ri-creazione e della re-visione come fosse la sua prima volta, restituendone allo spettatore il fascino intatto, lo sguardo puro, ideale e romantico. Con l’entusiasmo del personaggio Ed Wood di fronte alla magia della grande macchina dei sogni. Sweeney Todd riassume e rilancia tutto questo, sprofondandolo nel nero della Londra vittoriana. Un nero che si tinge del rosso dei fiumi di sangue che scorrono nella pellicola, nel corpo vivisezionato del film e di un cinema che ha necessariamente bisogno di tornare al punto di origine, in quel tempo segnato dal fantasmagorico che fonda la nascita della civiltà dell’immagine. Soltanto tornando a quel punto è possibile interpretare l’attuale mutazione antropologica e il salto di civiltà dell’Homo Videns. Proprio come diceva, mutatis mutandis, ormai quaranta anni fa Stanley Kubrick in 2001 - Odissea nello spazio.